La Stampa 21.6.15
Immigrazione, Grecia e populismi
di Stefano Stefanini
Il primo weekend d’estate potrebbe essere l’ultimo dell’Europa che conosciamo. Con l’uscita di Atene dall’euro, ancora evitabile ma possibile, l’Unione Europea si troverebbe di colpo in terra incognita. L’Unione molto di più della moneta unica.
Finanziariamente l’euro può sopravvivere senza Grecia; i mercati l’hanno già scontato tant’è che nell’ultima settimana la moneta unica non ha mostrato alcuna flessione sul dollaro.
Il contraccolpo – e forse questo i mercati non l’hanno scontato – sarebbe politico, profondo e imprevedibile. L’integrazione europea non ha mai perso pezzi per strada. Gli stessi tedeschi si domandano come sarebbe possibile non aiutare la Grecia dall’impoverimento in cui precipiterebbe.
Il doppio vertice dell’Eurozona di lunedì, dei ministri delle Finanze, seguito da quello dei capi di governo, è l’ultima spiaggia per trovare una soluzione che consenta alla Grecia di evitare l’insolvenza.
Non però una soluzione a tutti i costi, altrimenti Atene dovrà di nuovo essere salvata alla prossima scadenza del debito, fra pochi mesi. La richiesta di Tsipras di trovare con i creditori un accordo sostenibile per il debitore era economicamente sensata. Ha così ottenuto termini più accettabili, ma ha fatto poco per guadagnare la fiducia delle controparti, elemento essenziale di qualsiasi compromesso. L’abbraccio con Putin alla vigilia della riunione decisiva non aiuta molto a rasserenare l’atmosfera. Adesso, a tempo quasi scaduto, il primo ministro greco deve passare dalla retorica alla ragionevolezza.
Più delle sorti della Grecia, sono gli immigrati clandestini che angosciano le opinioni pubbliche europee. Le chiusure (temporanee?) di Ventimiglia e del Brennero mettono in discussione la libera circolazione nell’Europa di Shengen, fra l’altro alla vigilia della stagione turistica. Il successo del Partito Popolare Danese con un programma dichiaratamente anti-immigratorio non può che alimentare la smania di affrontare il problema dei clandestini e dei rifugiati con muri, barriere e rifiuti di condividere l’onere dell’ospitalità. Cioè di risolverlo ignorandolo e scaricandolo su altri. Questa reazione troverà ampia eco favorevole nella Francia del Fronte Nazionale di Marine Le Pen o nella Polonia di Andrzej Duda, e non si discosta molto da quella di tre governatori nord-italiani. Poco importa che rischi di fare danni economici e culturali ben maggiori dei benefici attesi.
Nell’immaginario collettivo europeo, i populismi hanno fatto dell’immigrazione un’invasione, senza molto riguardo ai numeri. Mentre Ventimiglia chiudeva gli sbarchi diminuivano. Sull’ondata emotiva l’Europa si gioca il futuro della libera circolazione, motore di creatività, di economie di scala, di crescita. Sia ben chiaro: il problema immigratorio esiste. Sugli sbarchi l’Italia è direttamente esposta ed ha un legittimo interesse a coinvolgere il resto dell’Unione sia nelle operazioni marittime necessarie sia nell’accoglienza a quanti varcano le frontiere dell’Unione e acquistano titolo a rimanervi. L’Italia ha però anche la responsabilità di esercitare scrupolosamente i controlli d’identità e di sicurezza su tutti gli ingressi e l’onere della prova nel rassicurare i partners Ue a questo proposito. Occorre una strategia di accoglienza ma anche di contrasto al traffico e, ove possibile, di respingimenti. Le nostre coste e isole non devono diventare una comoda scorciatoia verso altre mete europee dove sarebbe più difficile accedere direttamente. Non è questo del resto lo spirito di Shengen.
L’Europa ha le istituzioni, i mezzi e le capacità per gestire le sfide della Grecia (anche nel caso di uscita dall’euro) e dell’immigrazione. La capacità di tenuta dipende però anche dalla volontà politica dei governi e dalla percezione dell’opinione pubblica. Irrazionalità e strumentalizzazione, pane quotidiano dei populisti italiani ed europei, fanno perdere il senso delle proporzioni. Dei circa 60 milioni di rifugiati nel mondo – pari alla popolazione dell’Italia – stimati dall’alto Commissariato della Nazioni Unite, arrivano in Europa qualche decina di migliaia; Giordania, Libano e Turchia ne ospitano qualche milione. Sono cifre che dovrebbero far pensare e indurre nel dibattito quella misura di buon senso che oggi manca.