venerdì 19 giugno 2015

La Stampa 19.6.15
La sindrome dell’assedio che spaventa i magiari
Il nazionalismo è anche paura di sparire
di Bruno Ventavoli


Un muro? Sembra una barzelletta, uno di quei “witz” che si raccontavano ai tempi del comunismo per ribaltare in assurdo l’assurdità del reale e riderci sopra. L’Ungheria una solida cortina di ferro l’ha avuta per vari lustri. E quando c’era, gli ungheresi strologavano di tutto per bucarla. Chi fuggiva a nuoto, chi la tagliava con cesoie rischiando di saltare sulle mine. Quell’ansia, quel dramma, quel sogno di scappare alimentò pure la miglior letteratura anni 60 e 70. E ora che il muro della dittatura s’è sciolto (con tante feste nell’89) per lasciare entrare l’Europa, Orbán ne vuol costruire un altro?
Un’isola in una pianura
Dietro il progetto, certo, c’è il timore che arrivino disordine e delinquenza (l’Ungheria senza comunismo è crocevia di immensi traffici loschi); che negli immacolati villaggi della puszta con cani pastore ricciuti come reggae i migranti svendano la forza lavoro a prezzi stracciati, in un Paese dove il costo del lavoro è peraltro stracciato rispetto alla Ue benestante; che interi quartieri di Budapest siano sacche di stranieri senza tetto né legge; che non ci siano risorse per accogliere i poveri in un Paese che non s’è arricchito granché col libero mercato. La paura nasce da qui. E Orbán ha stravinto le elezioni puntando su questi temi, oltre che sul pericolo reale che gli stranieri (quelli danarosi) si comprino campagne, immobili, aziende.
Ma c’è qualcosa di più profondo rispetto al vento xeno-egoistico che soffia in tutto il mondo contro i migranti. Pur essendo europei da tredici secoli, i magiari incarnano una radicale diversità. Arrivano da chissà quali steppe asiatiche (anche loro furono rissosi migranti) e parlano una lingua che non c’entra assolutamente nulla con le altre («Italia», ad esempio, si dice «Olaszország»). Sono un unicum. Un’isola. Una scheggia nel ventre del vecchio continente. Una consapevolezza che ha sempre rafforzato l’orgoglio, l’identità, la cultura; ma anche alimentato la paura di scolorirsi, svanire, essere assimilati, omologati.
Record di invasioni
Herder, un romantico tedesco (quindi non sospetto), preannunciava nel ‘700 la morte della nazione ungherese, travolta dallo tsunami di tedeschi e slavi nei quattro punti cardinali. La «nemzeti halál» non c’è stata. Anzi, gli ungheresi hanno resistito. Perché l’Ungheria, un’immensa pianura senza «muri» naturali che s’invade come burro, è stata conquistata da turchi, austriaci, tedeschi, russi. Budapest è la metropoli europea che detiene il record degli assedi subiti. E due terzi dell’Ungheria storica appartengono alle nazioni confinanti per colpa di trattati di pace un po’ troppo punitivi.
La sindrome di scomparire dalla Wikipedia delle nazioni, dunque, è un timore vivo, costante, financo giustificato nell’inconscio collettivo. Tant’è che i leader, dal conte Széchenyi del risorgimento, al fascista Horthy, al comunista Kádár, al premier Orbán, pur nella differenza di statura e di programma, si somigliano quando si tratta di salvare l’identità, la purezza, l’integrità, la vita stessa della nazione. Una nazione piccola, di 10 milioni d’abitanti. Il muro che dovrebbe sorgere nel Sud del Paese e respingere orde di disperati, è costruito anche con i mattoni di quell’orgoglio e quella paura. Bisogna capirne a fondo la materia, la consistenza, la malta socioculturale se si vuole impedire che venga eretto.