venerdì 19 giugno 2015

Repubblica 19.6.15
Ungheria
Sulla frontiera dove sorgerà il Muro “Troppi migranti, noi li fermeremo”
Ad Asotthalom arrivano centinaia di stranieri al giorno ed è allarme
“Non sono criminali - dice il sindaco - magari rubano qualcosa o dormono nei giardini”
Bruxelles contro il governo di Budapest: “Non vogliamo nuove barriere”
di Andrea Tarquini


ASOTTHALOM ASSAN è arrivato qui la notte scorsa, il Muro annunciato non c’è ancora. «Fuggii dal mio paese, la Sierra Leone, il 25 aprile 2014, passai dalla Turchia poi dalla Grecia, là mia moglie è ancora ricoverata, sta male, volevo lavorare in Europa per i soldi per curarla», mi dice col sorriso esausto. Siede alla fermata dei bus di campagna. Gambe gonfie, viso disidratato, magrissimo, non si regge in piedi. Zòltan, il suo coetaneo agente della Mezoe Oerség (Forestale) ungherese che, pattugliando con la vecchia Lada Niva quel confine destinato al Muro, l’ha scoperto e soccorso con un panino e acqua minerale, lo guarda con occhi tristi di sconcerto. Il confine che l’Ungheria vuole blindare è così. Qui è il luogo dello scontro tra Orbàn e la Commissione europea che ieri lo ha duramente attaccato: «L’Europa non ha bisogno di nuovi muri, ne ha abbattuti di recente, non deve costruirne altri, non esiste soluzione nazionale al problema migranti, solo una soluzione comune», ammonisce Bruxelles. Moniti lontani, visti da qui. Passano a centinaia ogni giorno, sempre più numerosi, grazie alla polizia serba che chiude gli occhi quando non li pesta. E allora sindaci, poliziotti, gente del posto, non sanno più che fare, e la barriera di metallo alta 4 metri che dovrà tagliare boschi, selve e cespugli dell’ondulata pianura, pittorico confine magiaro dell’Unione europea, appare loro l’ultima salvezza. Asotthalom è la tipica cittadina agricola del sud ungherese: viali e strade s’incrociano alla torinese a 90 gradi, le case a un piano sono impeccabili, fiori ai balconi, il parco con la statua di Santo Stefano che un baldacchino coi colori nazionali protegge dalla pioggia è impeccabile. I pochi giovani non traslocati a Budapest hanno smartphone e cuffia da musica. «Ma da qualche mese affrontiamo una situazione diversa», mi dice Làszlò Toroczkai, il giovane sindaco. «Abbiamo 4mila abitanti, almeno 40mila illegali sono passati qui da noi. Prima venivano quasi tutti dal Kosovo, adesso sono in maggioranza africani o del Bangladesh. Senza documenti. Allarme nervoso, «contro piccoli crimini, per carità non aggrediscono mai nessuno però magari rubano qualcosa, rompono recinzioni, camminano sui raccolti, dormono in giardini e orti mangiando quel che vi trovano». Toroczkai ha appena 3 uomini della forestale con quell’unica Niva.
«L’idea della barriera venne a me, fui io a suggerirla alla polizia sei mesi fa», mi racconta il sindaco, sicuramente governativo. «Intanto continuano ad arrivare, a volte da trecento a cinquecento al giorno, centocinquanta l’ultimo weekend. Si metta nell’animo dei miei tre agenti, all’alba si trovano davanti folle nascoste nei boschi: magari sono islamisti e hanno decapitato qualcuno in Siria prima di venire qui?».
Idillio solo apparente, se passeggi per le vie fiorite di Asotthalom. «L’altro giorno erano una quarantina qui sul marciapiede, vigilati da quattro poliziotti. Pochi giorni prima un centinaio, soli, aspettando l’autobus della polizia nazionale che li porta al campo di raccolta », mi dice un anziano contadino. Loro, “gli africani”, “a feketekék”, cioè “i neri”, li senti definire.
Prima, erano kosovari di etnìa albanese, portati in bus al confine dalla Serbia: lasciate il Kosovo, vi faremo varcare il confine, l’Ungheria è il trampolino per Francoforte o Milano. «Adesso», mi dice il giovane sindaco, «vengono dall’Africa, dalla Siria, persino dal Bangladesh. Senza documenti, li distruggono prima. E allora come dovremmo giudicare le loro richieste d’asilo, e nel caso dove dovremmo rimpatriarli?».
Mi guarda stanco della vita senza tempo per far famiglia Zoltàn il giovane agente della forestale, mentre con lui sulla Niva pattugliamo i boschi. «Vede, ovunque là cartoni dove loro dormono, bottiglie di plastica d’acqua minerale serba. Sono le loro tracce». Il giovane sindaco è con noi, dilaniato dai pensieri: «Capisco la loro emergenza, ma è economica, il so- gno dell’Europa ricca. Vengono qui confessandoci di pensare che l’Ungheria sia ricchissima, io devo spiegar loro che non è così».
All’ombra della pensilina della fermata dell’autobus rurale, Hassan sorride ricambiato al suo coetaneo armato in uniforme Zoltàn, e racconta nel suo bellissimo inglese coloniale: «Mia moglie e io fuggimmo prima in Turchia poi in Grecia, ci trattarono malissimo. Il mio amore si ammalò, ebbi un documento greco valido un mese e la lasciai là in un ospedale. Per mesi percorsi i Balcani a piedi, tra i boschi. E seguendo le linee ferroviarie, senza i binari mi sarei perso nel nulla. Qui nei boschi ho lasciato il sacco a pelo in cui dormivo. E adesso vedi le mie gambe gonfie, i miei piedi feriti? Spero che Dio mi salvi, so che senza soldi il mio amore morirà nell’ospedale greco». Rumore di minibus diesel, frenata brusca. Arriva un furgone della Rendorség, la polizia ungherese. Due giovani atletici agenti scendono, si avvicinano a Hassan sorridenti. «Amico, tieni, bevi un po’ d’acqua, poi andiamo dal medico e poi al centro raccolta. Porta con te tutto quel che hai, tranquillo». Quasi lo sorreggono verso il furgone, Hassan si volta e saluta sorridendo stanco.