mercoledì 17 giugno 2015

La Stampa 17.6.15
“Intimidazione e pressione. Quella a Roma è mafia”
De Cataldo: io stesso a volte penso “so’ tutti uguali”
intervista di Francesca Sforza


Magistrato e scrittore, Giancarlo De Cataldo non può non guardare all’inchiesta di Mafia Capitale con gli occhi che lo hanno portato a scrivere prima Romanzo Criminale e poi, insieme al giornalista di Repubblica Carlo Bonini, Suburra. «Non abbiamo ancora il titolo – ci dice – ma stiamo già lavorando a una Suburra 2». Non un reportage, piuttosto un racconto parallelo della realtà: «Bisognava aspettare 1992 di Sky per ricominciare a narrare la grande epica nera della corruzione italiana».
De Cataldo, partiamo dalle parole. Quanta mafia c’è in Mafia Capitale?
«Io sto all’ultima sentenza della Cassazione, che ha accolto in pieno l’impianto accusatorio per questo titolo di reato: c’è intimidazione, c’è pressione, c’è anche qualcosa di tradizionale, perché se vogliamo la passeggiata dell’imprenditore con il mafioso o il capobastone, è il chiaro segno che la violenza, se serve, si usa. Non è necessario richiamarsi a tutto l’apparato rituale dei mandamenti o dei santini, né praticare violenza estrema, perché l’intimidazione è un concetto più largo. È intollerabile considerare il fenomeno come se ci trovassimo di fronte a una compagnia di raccogliticci»
Che idea si è fatto di Salvatore Buzzi?
«Conoscevo Buzzi, è stato l’emblema del carcerato rieducato. Quando facevo il giudice di sorveglianza, ho contribuito insieme ai miei colleghi alla costruzione di queste cooperative, che erano e restano un luogo di riscatto sociale. Ecco, l’uomo a un certo punto ha avuto un cambiamento che non sono in grado di definire, ma che ha lasciato sorpresi moltissimi di noi. Ancora adesso la cooperativa “29 giugno” dà lavoro a oltre mille persone tra detenuti e ex detenuti, e tra questi lavoratori la percentuale di recidiva è stata dello 0,6%. E l’idea della rieducazione dei detenuti non può essere stroncata dagli errori che qualcuno ha commesso».
Mafia Capitale, ha chiamato il Pd a fare i conti con vecchi apparati, vecchie collusioni. Che possibilità ha un partito di cambiare verso a una città come Roma?
«Il problema non riguarda solo il Pd: la classe politica, da sola, non è in grado di reggere l’impatto. Non basta un Ignazio Marino, un assessore come Sabella: la politica senza la società civile non ce la fa. E la dimostrazione è nella percentuale di astensionismo al voto. Io stesso, che ho sempre preso molto sul serio l’esercizio del diritto di voto, mi sorprendo a pensare quello che rimproveravo a mio padre quando ero un ragazzo: “So’ tutti uguali”. Quando una classa politica assume l’atteggiamento da “non infastidite il manovratore”, il legame con la società civile si consuma.».
Pensa che Marino sia comunque un argine all’illegalità?
«Fra i tanti politici che ho conosciuto, Marino mi è sembrato quello meno influenzato dalla mutazione genetica dell’homo politicus che valuta sempre freddamente l’interlocutore in termini di do ut des. Mi è sembrato lontano da questo modello, ed è evidente che una figura così inceppa un meccanismo consolidato, dà fastidio».