venerdì 26 giugno 2015

Il Sole 26.6.15
Una riforma con poche luci, qualche ombra e tanti «dejà vu»
di Luisa Ribolzi


Il maxiemendamento che sintetizza (si fa per dire: 209 commi per 39 pagine) il testo approvato dalla Camera e le migliaia di emendamenti presentati è oramai noto. Che dire che non sia già stato detto? Per esempio, che la sensazione di déjà vù si è fatta sempre più forte: prescrive azioni già previste dalle riforme degli ultime 18 anni. Cito a caso: il comma 3 prevede l’articolazione del monte ore o del gruppo classe, la programmazione flessibile e altro, tutte cose già consentite e attuate, così come i 18 obiettivi del comma 7, già inseribili nella programmazione; il piano triennale dell’offerta formativa previsto dal comma 12 è ampiamente realizzato, ad esempio nella scuola media della mia nipotina; il comma 21 parla di un’equipollenza dei titoli fissata dal “milleproroghe” del 2012: e siamo solo a pagina 5. I casi sono due: o il legislatore non sa che queste cose già esistono oppure vuole ribadire l’importanza che vengano realizzate.
Proseguiamo. Sulla scuola paritaria viene ridimensionato il buono scuola, abbassato il limite per gli sgravi fiscali e in compenso il comma 150 prevede «un piano straordinario di verifica della permanenza dei requisiti per il riconoscimento della parità scolastica». ?Ma già il dl 250/2005 prevedeva che la parifica fosse rilasciata dagli Usr, non dal ministero, sulla base di un regolamento mai emanato, e quindi ancora una volta si tratterebbe di realizzare in forma straordinaria una prescrizione non realizzata in via ordinaria. E poi, le paritarie nel 2013/14 erano circa 13.500, e anche limitandosi alle 1.500 secondarie di secondo grado, controllarle tutte, con le risorse disponibili all’attuale stato di (dis)funzionamento del sistema, non pare facile. Per il rispetto della regolarità contabile (che se mai è competenza del Mef: sono imprese private) ci andrà la finanza? Naturalmente, a costo zero: il maxiemendamento prevede qualche finanziamento, ma la maggior parte delle innovazioni è a costo zero, concetto difficile da spiegare ai colleghi stranieri non per difficoltà di traduzione, ma perché è ormai acclarato ovunque, tranne che in Italia, che le riforme hanno sempre un costo, magari non esplicito.
Fermiamoci qui, anche se potrei continuare a lungo (perché le Afam in un decreto sulla scuola? Perché il 10% alle scuole che ricevono meno donazioni, i cui genitori sono magari non più poveri ma più egoisti? Perché così tanto spazio alla decretazione entro 18 mesi (comma 178, nove) quando l’esperienza ci dice che non è infrequente il caso in cui i decreti non vengano emanati (o subiscano gravi ritardi). Non voglio qui entrare nel dibattito in atto da mesi sui docenti, sul loro numero e tipologia, su quando saranno assunti e quando incominceranno a lavorare (sic!), sullo spazio lasciato ai giovani, su chi li valuterà, se mai saranno valutati, spesso sulla base di informazioni insufficienti o scorrette, e comunque quasi mai pensando a quel che serve agli studenti.
Ci sono certamente molti aspetti positivi, come la parte sull’alternanza, una qualche rivalutazione della formazione tecnica superiore, la disponibilità di fondi che negli anni scorsi erano stati sempre e solo ridotti. Temo però che il clima di esasperata conflittualità che ha accompagnato la Buona Scuola, non sempre e non solo legato ai suoi contenuti, renda particolarmente problematico attuarne il dettato e soprattutto apportarvi le necessarie modifiche. Nel 1999 il primo ministro di Singapore poneva come obiettivo della riforma della scuola: “Thinking school, learning nation”: una scuola che pensa, una nazione che impara. Ma in Italia, francamente, non saprei da quale delle due cose incominciare.