Il Sole 25.6.15
La busta paga degli statali
Il totale perso vale in media il 43% di un anno di retribuzione
In 5 anni mancati aumenti pari al 9,6% dello stipendio
di Gianni Trovati
ROMA Cinque anni e mezzo di blocco della contrattazione sono costati ai dipendenti pubblici il 9,6% dello stipendio in termini di mancati aumenti a regime; i soldi lasciati per strada ogni mese, invece, valgono in totale il 43% della retribuzione di un anno.
Quelle su cui i giudici costituzionali sono tornati a pronunciarsi ieri, insomma, sono cifre pesanti, per il bilancio pubblico ma anche per quello privato dei singoli dipendenti statali, com’è inevitabile quando una misura nata come “eccezionale” si prolunga di anno in anno a causa del protrarsi della crisi di finanza pubblica. In termini generali, il blocco ha finito in realtà per riallineare nel lungo periodo l’inflazione a una dinamica salariale che nel 2000-2010 ha corso molto più del costo della vita (lo ricorda l’ultimo rapporto semestrale dell’Aran), ma questo ovviamente non vale per chi è entrato nella Pa negli ultimi anni e si è trovato ad affrontare solo la seconda parte della parabola.
Per capire quanto ogni dipendente pubblico ha dovuto sacrificare sull’altare della tenuta dei conti si può partire dal quadro delle retribuzioni medie effettive nei diversi comparti della Pa che la Corte dei conti registra nella sua relazione al Parlamento sul pubblico impiego. I rinnovi contrattuali avrebbero dovuto mantenere queste retribuzioni agganciate al costo della vita, misurato in base all’indice dei prezzi al consumo armonizzato (Ipca) rilevato dall’Istat. Gli effetti maggiori, viste le dinamiche inflattive, si sono avuti nel 2011 e 2012, dopo di che l’andamento dei prezzi ha subito un brusco rallentamento (l’Ipca rilevato per quest’anno è al momento dello 0,4%).
Su ogni busta paga, quindi, l’effetto a regime del congelamento che si è protratto fino a oggi e che è stato salvato per il passato dalla Corte costituzionale è pari alla somma degli indici che sarebbero stati applicati dal 2010 a oggi (le tabelle a fianco lo calcolano per 7/12 ipotizzando la pubblicazione della sentenza entro luglio): il 9,6%, appunto. In valore assoluto, ovviamente, il risultato è diverso per ogni busta paga, ma i numeri delle retribuzioni medie rilevate dalla Corte dei conti dicono che per un dipendente ministeriale il mancato aumento a regime vale poco più di 2.700 euro lordi all’anno, per un dirigente di seconda fascia la cifra pagata per il risanamento del bilancio vale 8.372 euro annui mentre nel caso dei vertici amministrativi si arriva in media poco sopa i 18mila euro lordi. Più alto il conto presentato ai dirigenti di prima fascia degli enti pubblici non economici (Inps, Aci, Istat e così via), dove in media si sfiora quota 20mila euro, mentre negli enti locali le retribuzioni medie sono più contenute e per l’impiegato-tipo il sacrificio è stato vicino ai 2.750 euro.
Altro conto, però, è l’effetto cumulato, perché i mancati aumenti del passato si sono riverberati sugli anni successivi, e in questo caso il colpo vale il 43% dello stipendio annuale. Al netto delle tasse l’impatto è spesso un po’ più leggero, perché l’aumento di reddito può far scattare le aliquote degli scaglioni successivi, ma nel calcolo andrebbero considerati anche gli effetti previdenziali, perché buste paga più leggere si traducono in pensioni più basse.