giovedì 25 giugno 2015

Repubblica 25.6.15
La civiltà del diritto
di Massimo Riva


SEMBRA che almeno stavolta la Corte costituzionale si sia ricordata di Cicerone e del suo celebre monito “summum ius, summa iniuria”: la giustizia estrema si risolve in ingiustizia estrema.
E FINALMENTE anche l’Avvocatura dello Stato ha saputo far presente con efficacia argomentativa che — piaccia o non piaccia — il bilancio dello Stato non è una variabile indipendente da ciò che accade nel mondo. E quindi, come ora sta scritto anche nella Carta, la gestione dei conti pubblici deve tener conto di quel fattore ineludibile che si chiama ciclo economico. Ecco perché la sentenza che dichiara illegittimo il blocco delle retribuzioni del pubblico impiego riapre sì la partita con un anno e mezzo d’anticipo sul previsto, ma senza scaricare sulle casse dell’Erario l’onere micidiale di un pieno recupero per il passato. Al contrario di quanto poche settimane fa gli stessi giudici, seppure in forme ambigue e tortuose, avevano deciso in tema di perequazioni delle pensioni.
In termini di civiltà giuridica è un passo avanti, perché così chi amministra il diritto accetta di guardare oltre i confini ottusi delle legittimità formali e si spinge a considerare anche gli effetti sostanziali delle sue pronunce. Non che questa sentenza sarà neutra per i conti pubblici: un buco viene comunque aperto nel bilancio, in particolare su quello del prossimo anno. Ma in dimensioni che appaiono gestibili dato che le prime stime degli effetti contabili parlano di alcuni miliardi e non — come nel caso delle pensioni — di decine di miliardi.
E c’è da sperare che così sia realmente perché c’è da rammentare a chi ha proposto il ricorso alla Consulta contro il blocco retributivo del pubblico impiego che — date le condizioni del bilancio passato e presente — tale provvedimento sebbene odioso avrebbe potuto avere soltanto un’alternativa, questa sì odiosissima: un taglio radicale degli addetti alle pubbliche amministrazioni. Ipotesi tutt’altro che peregrina se i governi che si sono succeduti da Mario Monti a Matteo Renzi non avessero fatto scelte, magari anche giuridicamente impervie, tali da scongiurare la caduta del paese nella morsa di un commissariamento dall’esterno. In Grecia — sarebbe utile non scordarselo — proprio il settore del pubblico impiego è stato quello chiamato a pagare il conto più salato della crisi con licenziamenti di massa e tagli esorbitanti alla retribuzione di chi non perdeva il posto.
Il fatto che oggi l’economia italiana stia uscendo dalla sua pluriennale catalessi sta fortunatamente ricreando un clima di fiducia di sicuro indispensabile per spingere verso la ripresa. Assai alto, però, è il rischio che a cavallo di questa prima onda positiva ci si dimentichi che il Paese è ben lontano dalla fuoriuscita dai suoi guai. Mille insidie sono ancora presenti fuori e dentro i patri confini, come ci conferma ogni giorno la minacciosa volatilità dei mercati finanziari che fa salire o scendere a suo piacimento quella posta cruciale del bilancio pubblico in cui è scritto il costo di servizio del debito pubblico. Anche grazie, fra le altre, a misure come il blocco degli stipendi pubblici o delle perequazioni pensionistiche il Paese ha evitato la caduta nel baratro. In termini di equità sociale è sicuramente necessario, oltre che saggio, orientare da oggi l’ago della bussola politica in direzione di un risarcimento verso chi ha sopportato maggiori pesi. Ma per non precipitare di nuovo negli incubi del passato è essenziale che questa manovra venga condotta con mano tanto lenta e prudente quanto salda e determinata. Non solo i giudici della Consulta, quindi, ma anche chi reclama per le ingiustizie patite è tenuto a seguire la lezione di Cicerone. Altrimenti il vero pericolo è che il torto di uno sia rimediato con la sconfitta di tutti.