Il Sole 19.6.15
Quell’odio razziale mai del tutto sopito
di Marco Valsania
Un atto, certo, di follia. Di una follia omicida e forse isolata, nutrita da rancori atavici e nuovi, da messaggi di odio scambiati forse troppo facilmente via Internet e troppo facilmente armati, ancora una volta, dalla cultura della pistola facile. Il gesto di una mente sbandata, votata ai tragici atti di fanatismo che periodicamente esplodono nella società americana. Ma c’è oggi qualcosa di più, di nuovamente, terribilmente inquietante nel susseguirsi di episodi di odio razziale in America culminati nella strage in chiesa a Charleston. La follia non basta a spiegare lo spettro d’un ritorno violento della “color line”, di quella “linea del colore” mai del tutto cancellata dagli Stati Uniti e non solo. Un’espressione coniata da leader storici dell’emancipazione e della lotta alla segregazione degli afroamericani, da Frederick Douglass nel 1881 e da W.E.B. Du Bois il secolo scorso. Il moltiplicarsi di gravi “incidenti” - se non ci sarà una riposta davvero adeguata, di sicurezza ma anche politica, culturale e di giustizia in ogni senso - rischia di diventare molto più d’una coincidenza drammatica. La chiesa del massacro non è un obiettivo fra tanti, come ha ricordato Barack Obama: è l’erede di una delle più antiche congregazioni afroamericane del Paese, la più antica nel Sud, in prima fila nelle battaglia per i diritti civili e entrata nei libri di storia perché rasa al suolo nel 1822 dopo che uno dei fondatori organizzò una delle iniziali rivolte degli schiavi. Oggi la Carolina del Sud, nonostante i corridoi hi-tech e dell’auto, resta una delle regioni dal difficile clima razziale. Basta ricordare che a pochi chilometri dalla strage solo due mesi fa un inerme cittadino afroamericano di mezza età, Walter Scott, è stato condannato a morte sul posto da un poliziotto bianco che gli ha sparato alla schiena dopo averlo fermento per un fanalino rotto. Il poliziotto, in questo caso, è stato incriminato. Ma è ancora fresca la memoria di altri discussi episodi da una costa all’altra del Paese: Eric Gardner, venditore ambulante strangolato a New York da un agente con una presa illegale. Tamir Rice, 12 anni finiti in un attimo sotto le pallottole di una recluta che ha scambiato la sua pistola giocattolo per un’arma vera in un parco di Cleveland. E la crisi di Ferguson in Missouri all’indomani dell’uccisione del 18enne Michael Brown.
Così il “sogno” sulla fine del razzismo di Martin Luther King, invocato ieri da Obama per curare un paese traumatizzato, si scontra tuttora, al tramonto del mandato del primo presidente afroamericano, con la denuncia di Du Bois. Il paese deve riconoscere che ancora, in America, è possibile essere uccisi in una chiesa in un gesto, per quanto estremo o folle, di odio razziale. Un gesto ancora troppo vicino a quel giorno di settembre del 1963, quando militanti del Ku Klux Klan fecero saltare con la dinamite la 16th Street Baptist Church di Birmingham, in Alabama, uccidendo quattro bambine. Allora servirono 14 anni per arrivare a incriminazioni e processi. Ma gli Stati Uniti furono capaci di un grande sussulto di civiltà, forse ora nuovamente necessario: il movimento per i diritti civili si affermò come mai prima. E Obama, ieri, ha ricordato a tutti anche questo.