Repubblica 19.6.15
La guerra senza fine dell’America razzista
di Vittorio Zucconi
INDOVINA chi viene in chiesa, una sera di giugno, fradicio di odio come gli acquitrini che fanno da sfondo agli autoritratti diffusi sui social network. Immagina come possa un ragazzo di vent’anni essere gonfio di terrore e di disprezzo per quegli uomini e quelle donne di pelle scura che osano considerarsi suoi pari, americani come lui, sfacciati al punto di riunirsi a pregare.
E A LEGGERE la “sua” Bibbia in un tempio dedicato al profeta Emanuel, Colui Che Viene Nel Nome del Signore. Talmente rabbioso da sentirsi l’angelo vendicatore chiamato a bonificare la propria terra da quella feccia umana. E forse capiremo.
Anno dopo anno, dal 1967 quando l’ormai storico film di Stanley Kramer osò spezzare il tabù razziale con la scandalosa storia d’amore fra un afroamericano e una bianca, l’illusione della pace, o almeno del cessate il fuoco nella guerra fra le razze era cresciuta, se vista da lontano o attraverso la lente zuccherosa della cultura popolare, per culminare nell’assunzione al trono repubblicano di Barack Obama. Poi, nella città più simbolica della Guerra Civile, la Charleston dove fu sparato la prima salva di cannone fra il Nord e il Sud 150 anni or sono, nella chiesa Metodista che aveva espresso la speranza, la battaglia, le razzie del KKK bruciando e rialzandosi, si leva un demente Vendicatore della Razza per dirci che la guerra continua.
Uno stragista non fa un popolo, come un tagliagole non fa una religione o un terrorista non fa una causa, e Dylann Roof non è l’America bianca, neppure l’America più retriva degli stati del Sud. È un lupo solitario, come furono lupi sciolti quelli che fecero saltare un grattacielo a Oklahoma City per “punire” il governo di Washington. Ma se mezzo secolo fa, guardando Sidney Poitier, Spencer Tracy, Katharine Hepburn recitare la favola sciropposo dell’amore che tutto vince, ci chiedevamo come fosse concepibile che negli Stati Uniti prossimi al viaggio sulla Luna, il razzismo potesse ancora avere tanta presa, oggi diventa purtroppo molto più facile capire quell’odio in bianco e nero che fermenta anche fra di noi. E ribolle sugli scogli delle nostre civilissime riviere.
Come Barack Obama è stato, ed è ancora, per milioni di cittadini repubblicani, un usurpatore insediato da complotti mondialisti alla presidenza degli Stati Uniti, così per i Dylann Roof allevati a whisky e odio nella paludi del Sud americano, il pastore del Tempio di Emanuel, i fedeli che studiavano l’Antico Testamento con lui, la donna che ha risparmiato perché potesse raccontare la strage, sono clandestini. Sono invasori, che nessun documento, nessun certificato, nessun titolo accademico potranno mai integrare con gli eredi dei piantatori di cotone e riso appartanenti alle speci superiori, avendo dimenticato di essere proprio loro gli usurpatori. Eterni barbari, selvaggi che dovrebbero essere rimessi al loro posto, nei ghetti, nelle baracche, nelle enclave a loro assegnate, come in quel Sud Africa e in quella Rhodesia le cui bandiere l’assassino teneva cucite sulla felpa. Una di quelle felpe che sembrano essere divenute ovunque i manifesti eloquenti per gli analfabeti della storia.
Ma, in un paradosso angosciante, i fatti come questo di Charleston, gli omicidi di polizia che continuano a costellare le cronache, raccontano senza volerlo la tragedia di un cambiamento. L’esasperazione criminale, la rabbia sanguinaria di un ragazzo dai capelli rossi in South Carolina o dei poliziotti che sparano prima di chiedere se vedono il documento indebelbile del colore, segnalano la furia terrorizzata di chi sente l’irreversibilità della storia muoversi contro di loro. Sono “ribelli”, appunto come si fanno chiamare i separatisti e i segregazionisti in stati come la Carlonias, contro un’emancipazione reale cominciata formalmente proprio dalla sconfitta del Sud nella Guerra Civile, ma poi materializzata nella integrazione delle scuole e delle Forze Armate e della vita civile della Repubblica. Dylann ha sparato e mietuto quei “fottuti negri” come piante di granturco perché aveva visto, nella propria vita, crescere irresistbilmente la condizione degli afro americani nella società e ha cercato di fermarla nell’unico modo che conoscesse e che un fanatico conosca: con le armi. Non avrebbe sparato e ucciso se quegli sporchi “negri” fossero stati mestamente a cuccia nei canili dove gli antenati di Dylann li tenevano, se non avessero osato uscire dalla piantagione e considerarsi semplicemente, essere umani come lui. Ancora persuaso, povero, demente, sanguinario ragazzo che Django non possa sedere a cena con noi e debba stare al suo posto nella stalla. O morire.