Il Sole 16.6.15
Lotta alla corruzione
Renzi alla prova più difficile
di Montesquieu
Quella in atto, che mette insieme le difficoltà economiche e sociali del paese e l’autocorrosione delle sue strutture politico istituzionali è la prova più dura per il nostro sistema dal biennio di tangentopoli. La corrosione divora e distrugge i tessuti, li rende inservibili, irriformabili, ed è un processo spontaneo figlio della corruzione. Focolai di piccoli, grandi o grandissimi scandali si alzano qua e là di continuo, quasi un fenomeno di autocombustione, con il risultato di rendere indistinguibili le strutture sane da quelle ormai preda del contagio.
Un quadro tetro, che sarebbe stolto minimizzare, in un paese in cui le organizzazioni criminali conquistano negli anni spazi ben oltre le regioni di originario insediamento, in alcune delle quali si potrebbe, facendo della macabra ironia, parlare di infiltrazioni dello stato, anziché del contrario.
La visione non migliora se si vanno a guardare le capacità di reazione del sistema politico istituzionale, mentre il contagio aggredisce impietosamente “la” forza di governo, al momento unica ed insostituibile, il Partito democratico. Un sistema al momento incapace di prospettare alternative ad un governo che ormai si regge su apporti fortunosi e di giornata, in una geografia politica priva dei riferimenti abituali e necessari in ogni sistema: grosso modo, i conservatori, i progressisti, le forze di mezzo, mediocre fenomeno italiano ormai in via di esportazione. Un sistema che non si fa mancare la tendenza “europea” alla novità, che da noi si chiama Movimento Cinque stelle, ed è, per fortuna o per disgrazia, animata da uno spirito meramente osservativo alla gestione del paese e delle sue articolazioni, a differenza di quanto accade in Grecia o in Spagna.
Finisce per vacillare inevitabilmente, e in buona parte incolpevolmente per chi ha il compito di governare il paese, l’immagine di rinnovamento con cui si pensava di riconquistare rispetto e ruolo nelle comunità internazionali, a partire da quella europea. Il processo di sostituzione generazionale delle cellule esauste sembra spento prima della rigenerazione, dopo aver bruciato, per via di una “rottamazione” episodica e casuale, energie forse logorate ma decorose sotto il profilo della tenuta morale e politica, e aver portato sulla scena delle responsabilità di governo personalità che nulla aggiungono alle capacità dello stesso Matteo Renzi, e quindi scarsamente utili al suo sforzo.
L’assenza di alternative di governo è, nei manuali e nella realtà, la malattia delle democrazie, e in paesi sfortunati e periodi storici di minore vigilanza internazionale ha portato spesso a regimi autoritari. Rischio, almeno questo, che sembra risparmiare il nostro paese, ad onta di chi, non contento dei guai che vi sono, paventa la fine della democrazia: che non vi sarà, se non sotto la forma di una sua trasformazione. Meglio non dimenticare, comunque, la lezione recentissima di un periodo in cui si è dissolta, nel breve giro di un paio d’anni, l’unica proposta di governo dei cinquant’anni precedenti, nei quali il vizio italiano dell’assenza di alternative era addirittura siglato a livello planetario, reggendosi però nel paese su soggetti politici saldi e riconoscibili per gli elettori.
Oggi, renziani, antirenziani e “arenziani” (comunità assai folta, visti i tempi di astensionismo), e le rispettive rappresentanze politiche, sono davvero sulla stessa barca: sulla quale possono decidere, per un tratto, di remare uno accanto all’altro, fino all’auspicabile uscita dai marosi. Ma sarebbe troppo chiedere di farsi carico del momento alla nostra scombinata comunità politica - prodotto di una irresponsabile legge elettorale -, che confonde il nemico Renzi con lo Stato, e non vuole aiutare il secondo per paura di dare una mano al primo?.
La partita sulla “questione morale” è la più difficile per Renzi, perché pretende un’intransigenza che rischia di far cadere il governo ad ogni passo, e una logorante duttilità compromissoria per tenerlo in piedi. La soluzione maestra, il ritorno alle urne, sembra azzardata non per le sorti di questo o quel partito, ma per la tenuta del sistema.
Un vicolo cieco, in cui i responsabili (persone e soggetti politici) potrebbero mettere da parte, per estrarli al momento giusto, conflitti interni ai partiti, e accuse strumentali tra i partiti. Una sorta di commissariamento della competizione politica? In un certo senso una tregua, limitatamente alla competizione fatta di pretesti. Ovvero, che tenga la competizione su un livello definito non solo dalla ricerca del consenso. Come accadde, ad esempio, negli anni bui del terrorismo, quando un nemico comune minacciava la convivenza civile.
Un dubbio: questa classe politica ha ancora il senso dell’unità nazionale nell’interesse di tutti i cittadini, o preferisce l’unità dei propri, rispettivi elettori contro gli altri, quasi gli uni avessero problemi diversi dagli altri?