Il Sole 15.6.15
In libreria
Un testo unico per «leggere» i beni della Chiesa
di Carlo Marroni
Sono poche le date che contano nella storia dei rapporti tra lo Stato italiano, prima Regno e poi Repubblica, e la Chiesa. A parte la presa di Porta Pia del 1870, di certo i momenti cruciali sono l’11 febbraio 1929, data della firma dei Patti Lateranensi – firmatari Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri – e la revisione del Concordato con gli accordi di Villa Madama del 18 febbraio 1984, firmatari Bettino Craxi e il cardinale Agostino Casaroli.
Ma il trattamento dei beni ecclesiastici, che queste cornici e le successive legislazioni (la legge di conversione è del maggio 1985) avrebbero dovuto disciplinare con chiarezza, è stato soggetto a ricorrenti modifiche, a seconda dei tempi, dei governi, delle necessità.
Una continua evoluzione, quindi, della disciplina delle proprietà della Chiesa in Italia (escludendo, dunque, quelli della Santa Sede in regime di extra-territorialità), soprattutto fiscale, ma anche di “inquadramento”.
A fare chiarezza arriva ora il libro «L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del concordato» (Giuffrè editore) curato da don Lorenzo Simonelli, avvocato generale della Curia di Milano, e da Patrizia Clementi, esperta fiscale della stessa Curia.
Il libro è una sorta di “testo unico” sulla materia e vi hanno collaborato anche giuristi ecclesiastici come i monsignori Luigi Mistò, Mauro Rivella, Andrea Celli e Antonio Interguglielmi, i professori e avvocati Andrea Bettetini, Lorenzo Pilon e Adolfo Zambon, oltre all’arcivescovo di Gorizia e presidente della commissione giuridica della Cei, Carlo Redaelli.
Nella prefazione il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ricorda che «la Chiesa riconosce che nella carità vi è l’ispirazione della sua azione storica e di quella dei diversi soggetti attraverso i quali si esprime, e il diritto, in funzione ancillare, ne definisce le forme».
Insomma, anche per la Chiesa è costantemente necessario fissare bene i limiti giuridici, oltre che pastorali, della sua azione nell’uso dei propri beni, anche perché – ricorda ancora Parolin – «il mondo oggi più che mai è molto sensibile alle modalità con cui sono usati i beni, e soprattutto quelli della Chiesa». La quale, all’inizio dei suoi giorni duemila anni fa, chiamava i propri beni “patrimonium pauperorum”, visto che erano disponibilità funzionali alla carità: fu sono nel V secolo che i papi Simplicio e Gelasio imposero la prima riforma delle “finanze pontificie“ (non ancora vaticane…) e i redditi derivanti dai beni furono divisi in quattro parti: il vescovo, il clero, i poveri e la Chiesa.
Un interessante analisi su questo punto di vista si trova nel capitolo scritto da Redaelli, che analizza l’approccio in base alla “tensione” prevalente, ossia tra il privilegio dell’approccio esclusivamente spirituale e quindi povero, e il suo contrario, quello manageriale, dove tutto si giustifica perché «a fin di bene».
La verità sta in una sana mediazione tra le necessità: Redaelli dice che in Italia si trovano parroci che si lamentano perché la legge affida loro precise responsabilità civili, mentre per esempio in Svizzera (ma anche in Belgio) i parroci non hanno alcuna possibilità di azione sui beni della parrocchia, dove invece comanda un consiglio di laici.
Ma è Parolin a dare una chiave di lettura della realtà, che a fasi ricorrenti è oggetto anche di scontro politico. Il passato ci consegnò una miriade di opere nate dentro e dalla Chiesa – «scuole, ospedali, attività assistenziali e finanche mutue e il credito cooperativo», quest’ultimo non citato a caso – «la cui storia mostra come sono state capaci di adattarsi al mutare delle circostanze senza tradire la propria identità cristiana».
Patrizia Clementi, Lorenzo Simonelli (a cura di), «L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del concordato», Giuffrè editore