lunedì 15 giugno 2015

Corriere 15.6.15
L’ultimo atto di Majakovskij Un suicida circondato di spie
Agenti di Stalin e donne fatali nella vita di un uomo solo e infelice
Un libro di Serena Vitale
di Giorgio Montefoschi


Mosca, ore 10 e 16 del 14 aprile 1930. Al Pronto soccorso dell’Istituto Slifosovskij arriva una richiesta urgente di intervento. Sette minuti più tardi, un’ambulanza si ferma al numero 3 del passaggio Lubianskij. Al terzo piano, nella stanza (undici metri quadrati: un lusso per quei tempi) di una casa comune, c’è lo studio di Vladimir Majakovskij. Il poeta è in terra. Morto. Si è sparato al cuore. Il defunto odiava i pettegolezzi , l’appassionante libro, pubblicato da Adelphi, con il quale Serena Vitale ricostruisce il suicidio (ma fu vero suicidio?) di Majakovskij e, insieme, l’epoca mostruosa del terrore staliniano, e tutto un mondo che oggi ci appare ancora inaudito — perché i poeti e gli scrittori venivano giustiziati uno dopo l’altro nei sotterranei del lugubre palazzo della Lubjanka(sede della Ceka, la polizia segreta, poi chiamata Ogpu e quindi Nkvd) e però andavano all’ippodromo a vedere le corse dei cavalli, giocavano a poker, continuavano a scrivere poesie e commedie pericolose, e poteva capitare che ballassero il fox trot —, comincia così.
Lo schiocco di uno sparo e il grido di una donna — «Aiuto, aiuto… Majakovskij si è sparato!» — difficilmente possono rimanere inascoltati in una casa comune. La prima ad accorrere è Lidija Raijkovskaja, una infermiera che abita nell’appartamento numero 13. Entra e vede il cadavere al suolo con «la testa verso la porta, i piedi verso la finestra, tra i piedi una pistola». La giovane donna che ha gridato si chiama Veronika Polonskaja. Fa l’attrice. È l’ultima fiamma di Vladimir. Gliel’hanno presentata nel maggio del 1929, all’ippodromo, i coniugi Brik, Osip e Lili, con i quali in vicolo Gendrikov, consumando un rapporto ambiguo, Majakovskij abita da diversi anni.
In realtà, il rapporto è meno scandaloso di quanto possa immaginarsi, per quegli anni. Lili — che, al pari di suo marito, lavora per la polizia segreta — è una specie di Messalina, passa da un uomo all’altro, prende il sole nuda davanti ai suoi ospiti; e in Russia, da quel punto di vista, forse per reagire alla tetraggine, succede di tutto.
La scintilla, fra Lili e Vladimir, è scoppiata quindici anni prima. Appoggiato allo stipite di una porta (come Aleksandr Puškin) in una casa di Pietrogrado, il ventiduenne Vladimir sta declamando La nuvola in calzoni , il poema che va annoverato fra i suoi capolavori. Lili ha già conosciuto quel giovanotto corpulento e altissimo, scalmanato — il più scalmanato fra i poeti futuristi che vorrebbero buttare a mare Puškin, tutta la letteratura e la poesia precedenti, e cambiare il mondo — vestito in modo abominevole, i denti guasti, rozzo, arrogante, eppure maestoso. Ascolta la sua voce tonante: «Ehi, cielo,/ dico a voi!/ Toglietevi il cappello!/ Arrivo!/ Non sente./ Non sente./ L’universo dorme,/ l’enorme orecchio appoggiato alla zampa/ stellata di zecche…»; lo fissa ammaliata; di lì a poco diventeranno amanti. Ma lei sarà padrona crudele del suo destino.
Infatti lo sorveglia, in tutti i sensi. E quando Vladimir — che grazie alla sua fama e ai versi incendiari che celebrano la rivoluzione e il futuro radioso della città socialista, ha danaro, autista, e può viaggiare all’estero — torna da Parigi innamorato perso e deluso da Tatjana Jakovleva (una russa emigré , modista e mannequin da Coco Chanel), dopo aver scartato i regali che gli ha chiesto (tre paia di calzamaglie rosa, tre nere, profumo Rue de la Paix, matite per gli occhi Houbigant), organizza l’incontro all’ippodromo con la Polonskaja. Perché Vladimir continua a vivere con lei e il marito, pur non essendo più il suo amante, ma non basta: il «cucciolo», come lei lo chiama, non può stare da solo.
Ora, la Polonskaja, in cappotto e cappellino, dopo lo sparo e la richiesta d’aiuto — e già, nell’appartamento, le testimonianze contrastano: chi dice che è uscita dalla porta prima, chi dopo lo sparo — a coloro che sono accorsi sembra «tranquilla». Doveva andare alle prove della commedia La nostra giovinezza (così sostiene nell’interrogatorio e poi scriverà nelle sue memorie: ma pare che le prove si fossero svolte il giorno prima). Dopo l’interrogatorio, si dilegua.
Sono le 10 e 50. I giornali battono la notizia: Majakovskij si è ucciso. Nell’angusto studio di passaggio Lubianskij, si è raccolta una vera e propria folla: un ispettore, un medico legale, un famoso giornalista, l’impresario delle serate ultimamente sempre più rovinose del poeta, agenti segreti importantissimi (tra i quali, la vera anima nera: tale Agranov), precipitatisi dal palazzo della Lubjanka, che dista solo duecento metri, mezz’ora appena dopo lo sparo. Uno sconosciuto redige il verbale: secondo il medico legale, Majakovskij si è sparato al cuore, ha un forellino tre centimetri sopra il capezzolo sinistro; è disteso a terra con la testa verso la porta; tra le gambe, un revolver Mauser calibro 7,65.
Ore 12 e 15: la notizia si è sparsa in tutta Mosca, provocando incredulità e sgomento. La gente si accalca (c’è pure Boris Pasternak). I portantini faticano a trasportare la barella. Il cadavere arriva in vicolo Gendrikov. Da dietro la porta chiusa si sentono colpi atroci, come se stessero abbattendo un albero: gli stanno prelevando il cervello. Ore 24: viene trasportato in Via Vorovskij, al Club degli scrittori.
Passano ventiquattr’ore. Sulla «Pravda» appaiono epitaffi ipocriti. La versione ufficiale deve essere che Majakovskij si è ucciso per un dramma privato. Maksim Gorkij sostiene che lo ha fatto perché malato (forse, di sifilide). In città si intrecciano malignità e commenti di ogni tipo: si è ucciso perché era solo («Solo come l’ultimo occhio di chi va in una terra di ciechi»), per l’insuccesso della sua commedia Banja («Il bagno») critica verso la burocrazia staliniana, per lo spegnersi del talento.
Viene il giorno dei funerali. Ci sono fiumane di gente (come ai funerali di Puškin), più di centomila persone; sui balconi sono appesi drappi neri. Il cadavere di Vladimir si è gonfiato. La bara non si chiude. Un amico solerte monta sul coperchio. Altri amici spargono lacrime finte. I professori della Filarmonica moscovita suonano la Marcia funebre di Chopin. Qualcuno dice: «Majakovskij non riesce nemmeno a morire senza far casino».
Alle 19 e 35, al crematorio, il corpo brucia. E il «teppista», il grande poeta convinto di essere lui stesso un monumento, l’uomo disperato che un cattivo aveva descritto come un cavallo vestito da dama inglese, che di notte girava per Mosca prendendo a martellate il Dio che non gli rispondeva o non voleva concedergli l’eternità terrestre, e aveva scritto: «Il mio verso/ si aprirà una breccia/ nella mole degli anni/ e apparirà/ poderoso/ rozzo/ tangibile», non esiste più.
In una lettera, preparata il 12 aprile, rivolta «a tutti» ha scritto di non incolpare nessuno: niente pettegolezzi. Ma quali sono i motivi veri per i quali si è ucciso? Per l’insuccesso teatrale? Per le contestazioni e i fischi nelle letture pubbliche? Per le pressioni del partito? Per i ricatti della polizia segreta? Per il disinganno, il crollo degli ideali, l’orrore per l’avvento dei Tiranni? O davvero, come un borghesuccio qualunque, per amore, perché Veronika Polonskaja non voleva divorziare dal marito e quella mattina lo aveva definitivamente respinto? O per quella ferita sanguinosa che si portava dietro nel cuore e nessun amore, nessun progetto di futuro rivoluzionario radioso avrebbe mai potuto sanare? E infine: si era ucciso veramente da solo (usando la sinistra, lui che non era mancino); o qualcuno lo aveva ucciso usando la scala segreta che sbucava nello studio; o qualcuno, peggio ancora, gli aveva messo in mano la pistola (che forse era una Mauser, forse una Browning, forse un’altra)?
Aveva scritto: «Non inghiottirò veleno,/ e non riuscirò a premere il grilletto contro la nuca». Ma anche: «E sempre più spesso mi chiedo/ se non sarebbe meglio mettere il punto/ di una pallottola alla mia fine». Che dovesse, o potesse morire era comunque opinione diffusa. «Bisognava farlo fuori», scrisse Sergej Eiženštejn. «E lo hanno fatto fuori… Con le sue stesse mani.»
Con quale intelligenza di studiosa, con quale abilità di investigatrice Serena Vitale ricostruisce il suicidio, o l’omicidio, considerando tutte le possibili testimonianze vere o false, tutti i possibili documenti, tutti i perché ai quali fino ad ora — anche dopo la riabilitazione di Majakovskij — non è stata data una risposta. Per esempio: perché non fu mai interrogato l’autista del taxi che la mattina del 14 portò Vladimir e Veronika in passaggio Lubianskij; perché non furono conservati i verbali dell’autopsia; perché l’indagine fu chiusa il giorno stesso; e, soprattutto, «perché quello stormo di cekisti accorsi come avvoltoi subito dopo il suicidio»?
Con quale sapienza — dolorosa e asciutta — la Vitale conduce il lettore all’interno delle Tenebre dalle quali affiorano, veri e propri fantasmi in carne ossa, i volti emaciati, «normali» e orribili, dei delatori e delle spie che popolavano quel gigantesco carcere a cielo aperto, e quelli delle vittime trafitte dalla paura. Con quale finezza psicologica disegna la figura del poeta amato e vilipeso, altezzoso e tenero, impaziente e pietoso, con «quel corpo da gigante, grosso e inutile, partorito da chissà quale Golia in una notte di gelo».
Non da ultimo, con quale sapienza romanzesca l’autrice descrive il «prima» di quella mattina tragica. Perché già nella notte di San Silvestro Majakovskij era triste e non erano serviti a consolarlo i quaranta ospiti e il vino. E nei giorni precedenti il 14, dalla Polonskaja (quasi certamente la sua ultima sorvegliante) aveva ricevuto solo schiaffi in faccia, e dalla gente insulti. La sera del 13, dai Kataev — una delle tipiche serate moscovite con tè, biscotti, al massimo due bottiglie di Riesling — era taciturno e cupo; a Veronika, all’altro capo della tavola, mandava supplichevoli bigliettini. Poi il 14, col taxi, era passato a prenderla ed erano entrati nella stanza del mistero.