Il Sole 15.6.15
Realpolitik europea, così giovane e così fragile
di Adriana Cerretelli
Un macigno incombe sulla ripresa europea che sembra rafforzarsi, ma resta fragile. Quel macigno si chiama Grecia. Se dovesse caderle addosso, tutti i benefici della politica monetaria espansiva della Bce, dei bassi tassi di interesse, del mini-euro e del calo-petrolio finirebbero sommersi dall’ondata di instabilità che travolgerebbe i mercati, l’euro, l’Europa.
Checché ne dica chi giura che in realtà il cordone di sicurezza c’è, quindi non succederebbe quasi niente, e tende a minimizzare tanto l’impatto psicologico di una tragedia greca che sarebbe tutta anche europea, quanto l’impatto del principio della fine del dogma dell’irreversibilità della moneta unica.
Per questo l’accordo per evitare il default di Atene è vitale e il balletto negoziale, che da quattro mesi impegna i creditori con il debitore insolvente, diventa un esercizio deleterio: in questo caso, infatti, vista la posta in gioco, meglio un cattivo accordo subito che un non accordo a fine mese. Il costo di una rottura sarebbe incalcolabile, quello di un’intesa-cerotto su un problema che comunque si protrarrà per decenni sarebbe noto e decisamente più contenuto.
L’Europa che faticosamente sta uscendo da più di un quinquennio di anni bui, tra sviluppo piatto e disoccupazione alle stelle, non ha bisogno di farsi crollare addosso il mondo che ha faticosamente costruito. Di rischiare la disintegrazione proprio mentre comincia a pensare al rilancio del processo di integrazione, con un’unione economica e una politica che facciano dell’eurozona un’area più compatta e meglio governata trasformandola nel nucleo duro di un’Europa nuova, meglio organizzata e più forte.
Non ne ha bisogno anche perché, grazie all’arrivo alla guida della Commissione Ue di Jean-Claude Juncker, l’ex-premier lussemburghese che per otto anni ha presieduto il consesso ministeriale dell’Eurogruppo, le rigidità della dottrina europea della stabilità sembrano a poco a poco stemperarsi in un approccio più flessibile e pragmatico, nell’ambito delle regole vigenti. Era tempo.
Il rigore forsennato degli ultimi anni non ha prodotto un risanamento dei conti equilibrato, ma ha soffocato la ripresa facendo lievitare i debiti pubblici invece di contenerli, come era nelle intenzioni. Non solo. Dai tempi di Maastricht, quando furono fissati tetti massimi del 3% di Pil per il deficit e del 60% per il debito, il mondo è profondamente cambiato. Si è globalizzato, modificando di fatto molte dinamiche e regole dei giochi, compresa la loro governance.
Allora l’Europa cresceva in media del 4-5% annuo, le previsioni per il prossimo decennio si fermano invece all’1-1,5%. Non a caso in queste settimane il Fondo monetario internazionale ha apertamente criticato il codice di stabilità europeo tuttora erroneamente troppo concentrato sui deficit quando invece sarebbe il debito il solo punto di riferimento di cui tener conto.
Proprio per i dubbi circa la sostenibilità politica ed economica della linea seguita fino a pochi mesi fa, che tra l’altro con le sue asperità ha contribuito ad alienare consensi all’Unione alimentando nazionalismi e euroscetticismi diffusi, Juncker ha deciso di lavorare nelle pieghe del codice di stabilità per estrarne tutti i margini di flessibilità possibili senza modificare i Trattati Ue.
Il nuovo corso ha aiutato paesi come l’Italia e la Francia a diluire un po’ nel tempo gli impegni anti-deficit e a focalizzare il massimo dell’attenzione sulle riforme strutturali, ritenute la vera chiave di una crescita dinamica e duratura nel pianeta globale. Tanto più saranno virtuosi nel processo di modernizzazione dei rispettivi sistemi-Paese, tanto più saranno premiati con margini di flessibilità: questa la nuova logica di Bruxelles che oltre a dare un po’ di fiato allo sviluppo, affiancando l’azione della Bce, intende sostenerlo anche con un piano di rilancio degli investimenti per 315 miliardi in tre anni. Che potrebbe diventare operativo già a fine anno.
Naturalmente non è suonata la tromba della controrivoluzione nella politica economica europea. Tutt’altro. Le regole restano e le sanzioni per chi sgarra pure. Però si fa strada una loro interpretazione più realistica, che si spera aiuterà a risvegliare il colosso Ue, a restituirgli fiducia, quella voglia di fare e di rischiare che la crisi ha azzerato. Il colosso sta lentamente reagendo alla nuova cura. La svolta nel segno della Realpolitik, anche economica, gli fa bene. C’è solo da sperare che la sindrome ellenica non ci metta lo zampino.