domenica 7 giugno 2015

Corriere La Lettura 7.6.15
L’eugenetica non è più quella di una volta
Ora riguarda parti di Dna, non l’individuo
di Fabio Deotto


Parlare di eugenetica, oggi, significa spesso evocare nell’interlocutore immagini di campi di concentramento nazisti, persone malate soppresse come animali, accoppiamenti mirati al perfezionamento della razza, e un nome, quello di Josef Mengele, che viene puntualmente associato allo stereotipo dello scienziato pazzo. Tentare di ragionare intorno al concetto di eugenetica, oggi, significa raccogliere una collezione di teste scosse e commenti sommari, che spesso nascondono una sostanziale ignoranza sull’argomento. Questo perché dagli anni Settanta a oggi il termine è stato svuotato di ogni significato scientifico per diventare uno spauracchio utile a disinnescare preventivamente il dibattito intorno a questioni — come l’aborto terapeutico, lo screening prenatale e la consulenza genetica — su cui sarebbe invece necessario confrontarsi al netto di pregiudizi e banalizzazioni.
Nel libro Eugenetica senza tabù (Einaudi), Francesco Cassata si impone di fare chiarezza sull’uso pubblico di un concetto che risale alla seconda metà dell’Ottocento e che non ha mai smesso di essere attuale. Per poter affrontare l’argomento al netto di ogni banalizzazione è utile sapere che misure eugenetiche positive (indirizzamento selettivo della riproduzione) e negativ e (sterilizzazione forzata) sono state applicate in diversi Paesi europei e nordamericani già dalla fine del XIX secolo e ben oltre il dopoguerra. Basti pensare che negli Stati Uniti, tra il 1899 e il 1979 sono state effettuate circa 65 mila sterilizzazioni di individui considerati deboli di mente, degenerati o sessualmente pervertiti; e che persino nella Svezia socialdemocratica, tra il 1934 e il 1975, erano previste misure di sterilizzazione che avevano l’obiettivo di ridurre il peso demografico di persone «di tipo B».
Laddove per i nazisti l’eugenetica consisteva in sistematiche azioni di «pulizia razziale» — dagli aborti forzati al vero e proprio assassinio di individui considerati «deboli nel fisico e nella mente», nel caso delle socialdemocrazie scandinave e dei governi americani — le pratiche ammesse per legge non si spingevano oltre la sterilizzazione e non avevano una direzione esplicitamente razzista.
Entrambi i casi però si inseriscono in un solco preesistente. Le controversie sull’eugenetica risalgono infatti già alla metà del XIX secolo, quando al centro del dibattito c’erano gli studi di Charles Darwin sulla selezione naturale e un corollario inevitabile: se le attuali capacità dell’uomo sono frutto di un lunghissimo processo di selezione naturale, come si evolverà l’essere umano ora che questo processo è stato compromesso da un articolato sistema di tutele (una su tutte, quella garantita dai sistemi sanitari)?
Una prima risposta a questo quesito arrivò da Francis Galton, cugino diretto di Darwin, che nel suo saggio del 1869, Hereditary Genius , auspicò l’emergere di una sorta di ingegneria sociale indirizzata allo sviluppo di una società più virtuosa attraverso l’incentivazione dell’accoppiamento tra individui sani, colti e beneducati, e l’ostacolo dei matrimoni tra consanguinei. Lo scenario proposto da Galton, oltre a risultare violentemente classista, portava con sé un gigantesco problema bioetico: anche posto che sia giusto favorire la permanenza di caratteristiche fisiche e psicologiche utili alla società, l’idea di privilegiare la riproduzione di alcuni individui e disincentivare quella di altri sarebbe tanto aberrante quanto l’ipotesi di sterilizzare persone ritenute «non adatte» perpetrata da alcuni governi nel corso del Novecento.
Da allora, il panorama scientifico è molto cambiato. Con gli sviluppi più recenti delle biotecnologie, si presenta l’inedita prospettiva di intervenire sul genoma per attivare e silenziare specifici geni, favorendo così la trasmissione di alcuni tratti a discapito di altri. Il bersaglio dell’eugenetica si è spostato così dall’individuo al gene, un cambio di prospettiva che apre nuove frontiere nel dibattito bioetico. Se prima l’interrogativo era: «È giusto sterilizzare un individuo problematico per evitare che i suoi geni continuino a essere ereditati?»; ora è il caso di domandarsi: «È giusto intervenire con strumenti biotecnologici su geni problematici, per evitare la loro diffusione nelle generazioni a venire?».
Un quesito simile suscita risposte meno emotive del primo, ed è sufficiente riarrangiare la domanda per suscitare un consenso ancora più deciso: «Se sapessi che nel tuo corredo genomico sono presenti geni che codificano per una malattia ereditaria incurabile, accetteresti di manipolare il Dna delle tue cellule sessuali per evitare che i tuoi figli ereditino quei geni?».
È su questo cambio di prospettiva — da individuo a singolo gene — che si formalizza la cesura tra quella che Cassata definisce eugenetica forte , ossia «il progetto di miglioramento dei caratteri genetici di una popolazione, attuato da uno Stato per mezzo di provvedimenti coercitivi», e un’eugenetica debole , intesa come «l’insieme di pratiche selettive della genetica medica contemporanea, basate sul rispetto dell’etica medica e dell’autonomia riproduttiva dell’individuo».
Certo, il rischio che le biotecnologie vengano utilizzate a scopi eugenetici esiste; il problema è che il termine «eugenetica» viene impropriamente utilizzato per criminalizzare nuove opportunità biomediche che hanno un puro scopo di prevenzione; una su tutte: la consulenza genetica, ovvero quel processo volto a informare il paziente sul rischio di sviluppare e trasmettere un disturbo ereditario.
Un esempio virtuoso è quello della campagna di prevenzione della fenilchetonuria (Pku), una malattia ereditaria dovuta a mutazioni recessive, che nel secondo dopoguerra fu oggetto di un importante dibattito. Informare i portatori sani dei rischi connessi a un’eventuale gravidanza significava non solo aprire la strada a un controllo prematrimoniale volontario, ma anche a un concreto intervento terapeutico. I sintomi tipici della Pku (da semplici rash cutanei fino a un progressivo ritardo mentale), infatti, non si presentano immediatamente nel neonato, e possono essere tenuti sotto controllo attraverso una dieta povera di fenilalanina (un amminoacido).
Le tecniche di indagine genetica in questo caso non venivano impiegate per ragioni selettive, ma preventive e terapeutiche; si passava insomma dall’eugenetica alla genetica medica, una distinzione che a mezzo secolo di distanza è ancora lontana dall’essere pubblicamente accolta. La possibilità che una coppia decida di sottoporsi a un test genetico predittivo per valutare il rischio di trasmettere malattie ereditarie ai figli può e deve essere oggetto di dibattito bioetico; ma perché questo dibattito si sviluppi correttamente è prima necessario liberarsi, se non del termine stesso «eugenetica» (ormai inadatto a descrivere misure non coercitive), almeno del corredo di paure e semplificazioni che l’hanno accompagnato negli ultimi quarant’anni. In questo senso, il libro di Francesco Cassata è un ottimo punto di partenza.