Corriere La Lettura 14.6.15
L’eretico
Tito, marxista con gusti da arciduca anche a tavola e in camera da letto
Oggi nelle repubbliche ex jugoslave c’è nostalgia del maresciallo che combatté i nazisti e si ribellò all’Urss
È visto come un padre severo ma giusto. Gioca a suo favore l’immagine da raffinato dandy, amico di attrici come Liz Taylor e Sophia Loren
Ma in realtà fu un dittatore spietato
di Patrick Krlsen
La Tito-nostalgia è una variante, distinta e ben riconoscibile, di quell’attitudine al rigetto e al rimpianto diffusa nelle società postcomuniste dell’Europa centrorientale, bloccate dentro una transizione irrisolta verso la democrazia e l’economia di mercato. Da Lubiana a Belgrado una messe di studi, sondaggi, mostre, romanzi, film ci raccontano il sentimento benevolo nei confronti del dittatore e delle due illusioni a lui associate: l’unità dei popoli slavi del Sud, cioè la Jugoslavia, combinata a un socialismo dal volto umano, non oppressivo come quello sovietico. Nei Paesi in cui ha «regnato», Tito è ricordato spesso come un padre severo ma giusto, rispettato in ugual misura da tutti i figli del suo Stato multinazionale. Inoltre continua ad affascinare l’immagine del dandy in completo bianco, amante del lusso e della dolce vita, a passeggio con Sophia Loren o Liz Taylor sui moli dell’isola di Brioni. Praticamente, una sorta di Francesco Giuseppe in versione patinata e glam .
In Italia, che pure ha intessuto con il vicino comunista relazioni intense e talora critiche, di questi umori filtra poco o nulla. E neppure sono state tradotte le opere di quegli storici (due nomi per tutti: Geoffrey Swain e il compianto William Klinger) che hanno iniziato ad approfondire la biografia del discusso leader jugoslavo. A partire dai capitoli da sempre più oscuri e temuti dagli agiografi, quelli della giovinezza e della prima maturità negli anni Venti e Trenta. Quando Tito non era ancora Tito, ma «Walter»: un funzionario del Comintern in rampa di lancio sospettato di collaborare con l’Nkvd, la polizia politica del futuro arcinemico Stalin.
Pertanto, giova sicuramente al pubblico italiano l’uscita del monumentale Tito e i suoi compagni dello storico sloveno triestino Jože Pirjevec (Einaudi). Tanto più se il volume è il risultato di una ricerca seria e documentata, fondata su un estesissimo apparato di fonti secondarie e d’archivio ex jugoslave e sovietiche, statunitensi, britanniche e italiane. E se l’intento è quello dichiarato nell’asciutta introduzione, cioè restituire il profilo di Tito «alla maniera di Rembrandt»: senza sconti, vale a dire, con le ombre a dominare su sporadici chiarori, come Marx ed Engels invitavano a ritrarre gli uomini di potere.
Alla fine è quanto il lettore si trova in mano, perché Pirjevec non risparmia le tinte forti nell’abbozzare il suo soggetto. E non potrebbe essere altrimenti. Nato suddito asburgico nel 1892 a Kumrovec, sulla frontiera tra il regno di Croazia e il principato di Stiria, molto presto Josip Broz «si compromise a livello morale». Precisamente quando, sopravvissuto alla Grande guerra nella Galizia ucraina e risucchiato nelle maglie del sistema bolscevico, fissò a sua norma di vita l’inesorabile «meccanismo di rivoluzione e potere» che è il marxismo-leninismo, convincendosi che il male serve al bene e confondendo così l’uno con l’altro. Ma adottò senza remore anche la logica e la prassi dello stalinismo, non rinnegando l’arma del terrore e anzi adoperandola «con gioia» per sistemare le faide interne al piccolo, rissosissimo Partito comunista jugoslavo prima della Seconda guerra mondiale. «Eravamo orgogliosi di essere fedeli al tiranno sovietico» avrebbe ricordato Milovan Gilas: uno dei «compagni» del titolo «più stalinisti di Stalin», il gruppo dirigente decimato nel tempo dalle lotte fratricide del quale erano membri anche Edvard Kardelj, Aleksandar Rankovic e Andrija Hebrang.
La spaccatura del 1948 con l’Unione Sovietica non ebbe dunque fondamento ideologico, ma piuttosto derivò dalla «superba arroganza» della politica estera jugoslava. Lungi dal segnare un allontanamento dai contenuti criminali dello stalinismo, avrebbe coinciso almeno sul breve periodo con un loro soprassalto. Così accadde nell’«inferno» del lager di Goli Otok: l’Isola Calva sull’Adriatico dove più di 30 mila comunisti leali a Mosca, o presunti tali, sperimentarono, secondo alcuni testimoni, supplizi peggiori di quelli inflitti nel Gulag siberiano. Oppure quando fu varata la collettivizzazione forzata della terra, con la distruzione della classe sociale degli agricoltori decisa nell’autunno 1948 per dimostrare a Stalin quanto fossero infondate le accuse di lassismo verso i kulaki (contadini ricchi) indirizzate a Tito e compagni nella scomunica.
Tuttavia lo stesso Stalin si era compiaciuto per come quel «ragazzo in gamba» avesse eliminato tutti gli avversari, collaborazionisti e generici «controrivoluzionari», nel grande massacro dopo la vittoria del 1945. Un «terribile spargimento di sangue» lo definisce Pirjevec, rimasto a lungo tabù e costato la vita a un numero imprecisato di persone, tra le 70 e le 100 mila. Le politiche repressive e di epurazione preventiva colpirono in diverse fasi e modalità anche gli italiani della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia contrari all’annessione alla Jugoslavia o giudicati ostili al comunismo. Ma di «foibe» e di «esodo», nell’edizione italiana del ritratto di Tito firmato da Pirjevec, purtroppo non si parla, neppure in chiave problematica: il che appare un incongruo vuoto sullo sfondo di un’opera equilibrata.
In ogni caso, il tasso di violenza politica connaturato al nuovo regime decrebbe in maniera significativa dalla metà degli anni Cinquanta. La stagione che avrà per capolinea la lunga agonia e infine la morte del dittatore nel 1980, inaugurata alla conferenza dei Paesi non allineati a Bandung (Indonesia) 25 anni prima, è quella che più ha contribuito a forgiarne il mito in patria e all’estero. Specie nel Terzo mondo, agli occhi del quale Tito potè presentarsi come il paladino dei Paesi oppressi dalle superpotenze e penalizzati dallo schema bipolare della guerra fredda. Ma la sua popolarità salì alle stelle anche nel movimento comunista internazionale, dove il socialismo autogestito degli jugoslavi parve un faro a quei partiti (il Pci soprattutto) interessati a un riequilibrio policentrico dei rapporti di forza contro il monolitismo dell’Urss.
Nell’opinione prevalente tra i «suoi» popoli, Tito restò lo stratega che, dopo avere sconfitto Hitler e Mussolini, osò ribellarsi a Stalin senza cedere alle sirene occidentali, guadagnando alla Jugoslavia prestigio nel mondo grazie a un’accorta politica multilaterale. Le efferatezze dell’immediato dopoguerra furono avvolte in un tacito oblio. I relativi progressi nella qualità della vita, frutto in gran parte di un’economia drogata dai prestiti internazionali, occultarono il completo fallimento dell’autogestione. La grandeur , le frontiere aperte e le seconde case che «crescevano come funghi» resero sopportabili anche gli aspetti illiberali del regime, allentati ma mai cancellati del tutto, così come gli eccessi di un uomo bramoso e ingordo che non rinunciava a uno «stile di vita da arciduca austriaco». Sia a tavola che in camera da letto, come riferisce Pirjevec nei capitoli dedicati al Broz privato.
Solo il suo carisma, solo il magnetismo sfuggente dei suoi occhi azzurro pallido, riuscirono a tenere in piedi l’edificio fatiscente dello Stato jugoslavo, dentro il quale covavano i conflitti etnici che l’avrebbero dilaniato pochi anni dopo la sua morte. Occhi da vecchio cospiratore, «che non sempre sorridevano insieme con il suo volto» secondo Henry Kissinger. Da Stalin, l’antico maestro poi ripudiato e odiato, aveva imparato questa lezione tra le altre: «Devi ridere con gli occhi. E poi piantare il coltello nella schiena».