domenica 14 giugno 2015

Corriere La Lettura 14.6.15
Biologia.
In teoria la selezione naturale dovrebbe privilegiare gli egoisti. Non è così
L’altruismo (ma non troppo) fa bene
La solidarietà ha favorito l’evoluzione
Gli eccessi però rendono integralisti
di Telmo Pievani


Il rompicapo dell’altruismo angustiava già Charles Darwin. La selezione naturale, infatti, favorisce tratti che portano un individuo a sopravvivere e a riprodursi meglio dei suoi simili. Siamo di fronte a un processo individualistico e non preveggente: la variazione vantaggiosa deve premiare il singolo individuo nel corso della sua vita ed essere trasmissibile alla generazione successiva. Eppure Darwin, da buon osservatore, si accorse che la natura trabocca di comportamenti altruistici, di animali che sacrificano la loro vita (come l’ape che si suicida emettendo il pungiglione) e di milioni di individui (come le operaie e le soldatesse sterili in api, vespe e formiche) che addirittura rinunciano a riprodursi per servire la loro comunità. Un altruista non dovrebbe già essere estinto? Come si spiega il successo evolutivo di tutti quei gesti che aumentano le probabilità di sopravvivenza e riproduzione degli altri a scapito di quelle dell’altruista?
Il naturalista inglese abbozzò un’ipotesi esplicativa. In alcuni casi l’individuo preferisce cooperare con gli altri perché in questo modo il suo gruppo diventa più forte e coeso, vincendo la competizione con altri gruppi. Il singolo rinuncia ai propri interessi a favore del gruppo, che in cambio lo proteggerà insieme ai suoi parenti e ai suoi figli. L’idea è ingegnosa, ma si espone a un altro rompicapo non meno insidioso: se in un gruppo di cooperatori compare un egoista che inizia a fare gli affari propri, costui godrà di un doppio vantaggio darwiniano perché difende egoisticamente se stesso e al contempo beneficia dei comportamenti altruistici di chi lo circonda (un ottimo esempio è l’evasore fiscale). Si tratta del noto argomento del free rider , il battitore libero che dovrebbe sempre ribaltare la situazione e sbaragliare i cooperatori, disgregando qualsiasi gruppo di altruisti. Come mai, invece, in natura la cooperazione di gruppo vince così spesso sull’egoismo individuale e i free rider restano tutto sommato (fatta eccezione per gli evasori fiscali in alcuni Paesi) una piccola minoranza sotto controllo?
Evidentemente esiste qualche meccanismo che impedisce la sovversione interna da parte del free rider e fa prevalere l’altruismo. Alcuni grandi evoluzionisti del secolo scorso, come William Hamilton, pensarono di averlo trovato al livello della trasmissione dei geni. Nel gruppo, infatti, è probabile che vivano anche i nostri parenti stretti: fratelli e sorelle, figli, cugini, ognuno dei quali condivide con noi una certa percentuale degli stessi geni. Ciò significa che, se io sono altruista verso il mio gruppo, sacrifico sì i geni di cui sono portatore diretto, ma favorisco la sopravvivenza e la riproduzione di chi porta con sé una parte dei miei stessi geni. In altri termini: puoi anche rinunciare a trasmettere i tuoi geni se così facendo garantisci il successo di due o più fratelli, di quattro figli o di otto cugini. Si chiama «selezione di parentela» e sul piano strettamente darwiniano funziona.
Se questa è la chiave di lettura, significa che l’altruismo — termine coniato nel 1851 dal sociologo Auguste Comte e posto al centro della sua positivistica «religione dell’umanità» — in realtà non esiste. È soltanto una forma indiretta di egoismo genetico e in natura l’individuo risponde comunque e sempre ai propri interessi particolari. Non tutti gli evoluzionisti condividono però questa visione cruda. Molte ricerche mostrano che l’altruismo si manifesta spesso in gruppi in cui le probabilità di favorire un proprio parente stretto sono basse. Lo troviamo anche in situazioni in cui l’individuo agisce da altruista senza aspettarsi una ricompensa, cioè un atto reciproco di restituzione del favore. Essere altruisti conferisce autorevolezza sociale e reputazione. I battitori liberi, al contrario, vengono sanzionati. Qualcosa di nascosto nella logica stessa del gruppo, e non soltanto l’egoismo genetico, spiega l’evoluzione dell’altruismo.
Questa è la tesi del biologo statunitense della Binghamton University, David Sloan Wilson, esposta nel libro L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri (Bollati Boringhieri) . Tutto nasce da un calcolo matematico. Se una popolazione biologica è uniforme e ognuno gioca per sé, allora prevale l’egoismo individuale. Se invece una popolazione è divisa in gruppi che competono fra loro, può avvenire un fenomeno particolare: di generazione in generazione, all’interno di ciascun gruppo, gli egoisti tenderanno a prevalere (secondo il principio del free rider ), ma un gruppo pieno di cooperatori avrà successo sugli altri gruppi e crescerà di dimensioni, facendo aumentare quindi anche il numero dei cooperatori. Mettendo sulla bilancia egoisti e altruisti, alla fine i secondi saranno di più, nonostante la continua minaccia dei battitori liberi all’interno di ciascun gruppo.
Il segreto sta in un continuo bilanciamento fra la selezione a livello individuale all’interno dei gruppi (che favorisce gli egoisti) e la selezione fra gruppi, che premia la cooperazione. La selezione opera quindi a più livelli. Quando prevale la forza del gruppo, come nelle specie sociali quali la nostra, l’altruismo diventa una strategia vincente. I gruppi, diversi uno dall’altro per numero di egoisti e altruisti, competono fra loro e la cooperazione si diffonde.
L’altruismo quindi non è un esito accidentale dell’evoluzione. Il lavoro di squadra rappresenta l’adattamento distintivo della nostra specie, il che mostra peraltro quanto sia fuorviante la metafora della «sopravvivenza del più forte» (del tutto assente nell’ Origine delle specie di Darwin). In natura l’adattamento è sempre relativo a un contesto di relazioni: qualche volta sopravvive il più abile, il più flessibile, talvolta il più forte, talaltra il più opportunista, il più fortunato, e spesso il più altruista. Se visto nel contesto del singolo gruppo, l’altruismo è costoso, ma se alziamo lo sguardo alle dinamiche fra più gruppi che competono fra loro diventa molto remunerativo. In sintesi: all’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo, ma i gruppi altruisti battono i gruppi egoisti. Darwin, tutto sommato, c’era andato vicino.
Si può essere altruisti per le motivazioni più diverse (alcune delle quali, peraltro, egoistiche), ma ciò che conta secondo Wilson non sono le ragioni o i sentimenti che portano all’altruismo, bensì le azioni stesse che favoriscono gli altri. È il loro successo evolutivo antico che dobbiamo spiegare, tanto nell’evoluzione biologica quanto in quella culturale umana. Quando i componenti di un gruppo coeso e ben organizzato coordinano in modo funzionale le loro attività in vista di uno scopo comune, diventano più potenti di qualsiasi individuo (e anche più efficienti nel gestire i beni comuni, secondo le teorie di Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009). Altruismo significa dunque diventare parte di qualcosa di più grande.
L’agile introduzione di Wilson a questi temi propone anche un’educazione sociale all’altruismo nella scuola e nella vita, sperimentata nei quartieri di Binghamton. L’obiettivo è favorire ambienti sociali che permettano all’altruismo di imporsi in un mondo competitivo. Non manca un duro attacco ai «fondamentalisti del mercato» e a coloro che considerano egoismo e avidità come spinte propulsive dell’economia. Il libro è un inno alla potenza dei gruppi organizzati, ritenuti persino capaci di esibire un’«intelligenza collettiva», concetto controverso in campo scientifico. Talvolta l’associarsi in gruppo ha un tale successo da trasformarsi in un tutt’uno, cioè in un «super organismo» che si comporta come se fosse un singolo anche se in realtà è composto da milioni di individui. La selezione egoistica all’interno del gruppo in questi casi recede (ma non scompare mai, come nel caso delle cellule tumorali che proliferano a scapito dell’organismo a cui appartengono) e così emerge un nuovo livello di cooperazione. Le società umane, secondo l’ottimistica visione di Wilson, rappresentano un nuovo stadio dell’evoluzione e devono ora avviarsi verso un «altruismo planetario» che consideri come suo obiettivo il benessere di tutto il mondo.
Forse non tutti però gradirebbero far parte di una società alveare su larga scala, o di un super organismo policentrico come quello prefigurato dall’autore. I gruppi umani (cementati secondo Wilson da una selezione culturale di gruppo, in cui le religioni hanno svolto un ruolo cruciale di collante) presentano anche patologie ed eccessi, come il tribalismo, il conformismo sociale e l’integralismo. Un altruista troppo zelante e mal indirizzato può fare disastri. Benché Wilson non ne parli, è una diretta conseguenza della sua teoria: la cooperazione che ha reso così forti i nostri gruppi non sarebbe stata possibile senza il conflitto tra i gruppi stessi. L’altruismo è una strategia vincente per il nostro «noi» (il gruppo dei nostri simili), ma trova in chi è «altro da noi» il suo potenziale nemico. La specie umana sarebbe cioè socialmente ambivalente: cooperazione e aggressività nascono da una matrice comune, ovvero la nostra evoluzione in piccoli gruppi in competizione. Così il conflitto, paradossalmente, potrebbe aver nutrito il nostro altruismo. L’impressione è che solo una lunga evoluzione culturale e sociale potrà liberarci da questo retaggio ambiguo e insegnarci a considerare come nostro gruppo di appartenenza l’intera specie umana.