martedì 9 giugno 2015

Corriere 9.6.15
Modello franchising quel che serve al pd
di Michele Salvati


L’importanza della qualità di un partito per la qualità della vita pubblica complessiva di un Paese è stata sottolineata domenica scorsa da Sergio Fabbrini («Elettorale e multilivello», Il Sole 24ore ). L’articolo fa riferimento al cancro corruttivo rivelato dalle indagini giudiziarie sul Comune di Roma, un cancro sul quale il Pd non è sinora riuscito a incidere, né sembrano avere questa capacità partiti concorrenti.
Si tratta però di un problema generale, e che non riguarda solo la corruzione: in che misura un partito, a livello nazionale, riesce a «controllare» i suoi rappresentanti comunali e regionali? Con quale efficacia riesce a garantire che i livelli locali si conformino alla linea politica (ed etica) del partito, a impedire che cadano preda di personalità nella sostanza indipendenti, pronte ad avvalersi del nome del movimento se ad esse conviene, ma anche a cambiare casacca o a mettersi in proprio se le condizioni che il partito pone per la concessione del simbolo (del... marchio) non dovessero più convenirgli? Che cosa avrebbe fatto De Luca in Campania se il Pd gli avesse negato l’uso del simbolo e avesse designato un altro candidato? Probabilmente si sarebbe presentato lo stesso, dividendo l’elettorato, e ora in Campania avremmo come presidente Caldoro — così come in Liguria abbiamo Toti, a causa sia della disattenzione del centro sulla qualità modesta (diciamo così) del partito locale, sia di conflitti politici all’interno dello stesso Pd nazionale.
Inutile il rimpianto per il vecchio «partito-ditta», ideologico e di massa, in cui un forte cemento identitario rendeva più difficile uno scollamento tra nazionale e locale. E vana è la fiducia in un partito personale, come l’ha chiamato il professor Mauro Calise: viene un momento in cui il potere carismatico del fondatore si erode e, se non è sostituito da regole interiorizzate, un esito di scollamento è inevitabile. Per evitarlo, e nello stesso tempo tener conto della grande varietà di situazioni locali, traendo profitto dall’iniziativa e dalle capacità dei politici che emergono sul piano comunale e regionale, una forte autonomia dei livelli di partito sub-nazionali dev’essere riconosciuta.
Riconosciuta ma regolata. Questa è la prospettiva in cui deve porsi una forma partito adatta alle circostanze attuali. E sono d’accordo con Fabbrini: «occorre lasciare al passato [i modelli di partito ditta e di partito personale] e prendere atto che le moderne democrazie hanno bisogno di partiti elettorali, connotati da un programma di governo e da un leader. I partiti servono per governare e per controllare chi governa. I cittadini non hanno bisogno dei partiti per sapere cosa debbono pensare».
Se mi si concede un’analogia un po’ irriverente, il problema è simile a quello regolato da un contratto di franchise , in cui la parte nazionale concede il marchio, ma detta anche condizioni stringenti per il suo uso; e la parte locale è convinta che l’uso del marchio e le condizioni che l’accompagnano sono convenienti. In altre parole, e più vicine alla politica, i dirigenti locali devono essere persuasi che il simbolo che è stato loro concesso è un simbolo vincente, e conviene loro sottoporsi alle condizioni — etiche e politiche — che l’accompagnano. E la direzione nazionale deve garantirsi che la varianza nella qualità e nella linea delle dirigenze locali non comprometta la linea politica generale e soprattutto l’immagine esterna del partito nel suo insieme. E questo esige regole contrattuali chiare e un continuo interscambio tra i due livelli dei gruppi dirigenti.
I partiti non amano essere regolati né dall’esterno, in ottemperanza all’articolo 49 della Costituzione, né dall’interno, dandosi statuti vincolanti. Ma entrambi gli interventi sono necessari, anche se il primo comporta il rischio di una litigiosità legale diffusa e di interventi giurisdizionali troppo invasivi; mentre il secondo è esposto alla continua tentazione di piegare le regole statutarie alle esigenze del momento e agli interessi dei gruppi dominanti: si pensi all’uso opportunistico delle primarie, che dovrebbero essere uno dei primi obiettivi della regolazione.
E poi, su quale realtà dovrebbero applicarsi queste regole, esterne e interne? Al momento l’unico partito abbastanza grande e organizzato da sostenere una regolazione incisiva è il Pd. Vero. Ma intanto si cominci da una essenziale regolazione esterna e si lasci quella interna a chi è in grado di promuoverla: la strada sarà lunga, ma in qualche momento e da qualche realtà bisogna pur cominciare