martedì 9 giugno 2015

Il Sole 9.6.15
«Cacciarli se non votano la fiducia? E poi come facciamo in Senato?»
I due partiti e la resa dei conti impossibile
di Emilia Patta


«Cacciarli se non votano la fiducia? E poi come facciamo in Senato?». Ecco, questa frase off the record pronunciata da un dirigente della maggioranza renziana descrive bene lo stato dei rapporti tra i due partiti che convivono nel partito della Nazione. Rapporti basati sulla forza politica da una parte, sul potere d’interdizione dell’altro e sulle reciproche convenienze. Il nodo centrale della vita attuale del Pd è il rispetto delle regole interne e delle decisioni prese a maggioranza dagli organi del partito (la direzione più volte convocata da Matteo Renzi su Italicum e riforme, appunto) e dai gruppi parlamentari. Le regole già ci sono, al netto del costituendo codice di comportamento di cui ha parlato ieri Renzi, bisognerebbe solo decidere di farle rispettare. Va da sé che un parlamentare che non vota la fiducia al governo presieduto dal suo segretario compie un atto politico così forte da mettersi automaticamente fuori. Eppure l’ultima volta, sull’Italicum, in 36 non hanno votato la fiducia senza che questo gesto provocasse conseguenze disciplinari (tra di loro l’ex premier Enrico Letta e l’ex segretario Pier Luigi Bersani): un inedito assoluto, e non solo nella storia del Pd. Ma Renzi può cacciare dal partito Letta e Bersani? E soprattutto, può permettersi di minacciare e poi procedere a espulsioni in caso di mancato rispetto di basilari regole interne al partito se al Senato la maggioranza si regge su 9 voti e i dissidenti del Pd sono 24? Evidentemente no, a meno che non decida di mettere in conto elezioni non anticipate ma anticipatissime. E d’altra parte se non ci sono sanzioni a cosa servono le regole se non ad essere eluse in mancanza di un rapporto di fiducia e lealtà?
Sul fronte della minoranza, almeno quella che cerca un’alternativa a Renzi in vista del congresso del 2017 e intende spostare a sinistra l’asse del partito, è altrettanto evidente che non ci si può permettere né di lasciare il Pd per tentare avventure elettorali a una cifra né di precipitare il braccio di ferro in Parlamento fino a rischiare elezioni anticipate. Il progetto di un’alternativa a Renzi, la cui leadership è salda e ora non ha di fatto alternative, ha bisogno di tempo per avere qualche chance se non di successo almeno di visibilità: se al prossimo congresso la minoranza riuscirà a prendere più del 18% raccolto lo scorso anno da Gianni Cuperlo potrà essere determinante nella formazione delle liste elettorali per le politiche. Per questo il “patto” di legislatura fino al 2018 evocato da Renzi conviene soprattutto alla sinistra dem. La minoranza ha dalla sua, fino al momento della conta congressuale, il potere di interdizione in Senato, potere che i suoi esponenti sono intenzionati a usare appieno per modificare la riforme in campo e far «cambiare verso» al loro segretario e premier. Mentre Renzi ha dalla sua, oltre alla forte leadership, l’arma del voto anticipato. Una pistola che, nonostante l’Italicum valga solo per la Camera ed entri in vigore a luglio 2016, è in qualche modo sul tavolo (sulla carta, basterebbe un decreto che dovrebbe poi essere convertito dalla nuova Camera per togliere la “clausola di salvaguardia” e tornare alle urne prima di quella data).
Una situazione di fatto congelata, e che non prevede vere rese dei conti. Che infatti non ci sono state, né probabilmente ci saranno almeno fino al momento di compilare le liste per le politiche. La strategia di Renzi resta la stessa: coinvolgere il più possibile la minoranza, soprattutto gli esponenti più giovani, isolando via via gli irriducibili. Che nei calcoli di Palazzo Chigi e dei vertici Pd in Parlamento si riducono ad alcune note personalità: Bersani Bindi Fassina e pochi altri alla Camera, Gotor Migliavacca Mineo e Tocci al Senato. Da qui le aperture sulla scuola e sulle riforme istituzionali. Con un unico rischio, che non è tanto quello di precipitare al voto anticipato quanto quello di dover annacquare le riforme in campo.