Corriere 6.6.15
Non solo Auschwitz. La memoria di Pahor per gli altri campi
di Marisa Fumagalli
«Ci sono Campi quasi dimenticati, sopraffatti dall’Olocausto. Di loro si parla poco, mentre Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, hanno lasciato il segno nella memoria collettiva. Ma io vorrei raccontare degli altri che furono la maggioranza». Queste parole di Boris Pahor si leggevano nel testo dedicato ai giovani, che lo scrittore affidò al «Corriere della Sera» in occasione del suo centesimo compleanno (era 26 agosto 2013).
Erano un suo chiodo fisso quei Campi di «annientamento per lavoro, fame, malattie e impiccagioni», zeppi di oppositori al nazismo di molte nazionalità, dove egli stesso fu rinchiuso provando le sofferenze dell’orrore e rispecchiandosi altresì in quelle dei compagni. Certo, in alcune pubblicazioni l’argomento era stato affrontato (anche in Necropoli , l’opera che gli valse numerosi premi e la candidatura al Nobel) ma l’autore triestino di lingua slovena aveva in mente un lavoro più organico.
Tuttavia, l’idea sarebbe rimasta tale senza lo stimolo di Elisabetta Sgarbi, responsabile editoriale di Bompiani, che da qualche tempo lo segue con attenzione. Ora, il progetto è compiuto. Da pochi giorni è in libreria Triangoli rossi. I Campi di concentramento dimenticati (Bompiani , pagine 240, e 13) di Boris Pahor, con la collaborazione di Tatjana Rojc.
Nella Premessa , la spiegazione del titolo di quello che definisce «un semplice promemoria, un vademecum»: «I Triangoli rossi sono i deportati politici. Il triangolo rosso — avverte Pahor — era segnato sul mio petto sotto il numero che sostituiva il nome. Significava che ero stato catturato perché come soldato non mi ero presentato all’autorità militare nazista, ma avevo scelto di oppormi in nome della libertà». E «noi politici — aggiunge lo scrittore — a differenza di altri deportati che venivano uccisi con il gas appena arrivati col trucco delle finte docce, dopo le docce vere dovevamo andare a lavorare e cominciare subito ad avere fame e ammalarci, per finire poi in posizione orizzontale».
Nella prima parte, lo scrittore narra l’esperienza diretta a Dachau, Sainte-Marie –Aux-Mines, Natzweiler-Struthof, Dora-Mittelbau, Dipendenza Harzungen, Bergen-Belsen. Quindi, scrive degli altri lager nazisti; senza dimenticare, infine, i 10 Campi fascisti. Il libro si chiude con l’elenco delle carceri slovene e italiane da cui si veniva deportati. Le pagine più avvincenti (e crude) sono quelle autobiografiche.
Tra i ricordi più lucidi di Boris Pahor, c’è il periodo da lui trascorso a Dora-Mittelbau in Turingia («107 detenuti di diverse nazioni, radunati nelle gallerie all’interno della collina Kohnstein nella bella vallata dello Harz, cantata da Schiller e Goethe»).
C’è poi la denuncia: «Di Dora si parla poco perché il direttore, ingegnere Wernher von Braun, iscritto al partito nazista dal 1937, sapeva quante vite umane costarono quei missili lanciati sull’Inghilterra. (In quegli antri venivano allestiti gli impianti per le bombe V1 e i razzi V2). E lo sapeva anche chi se lo portò negli Stati Uniti, lo accettò alla Nasa e gli diede il National Medal of Science nel 1975».