Corriere 6.6.15
Guerra di Spagna, tra due fronti
Il cronista Chaves Nogales: chiunque vincerà, ridurrà il mio popolo in schiavitù
di Sergio Romano
Dopo un lungo letargo, brevemente interrotto dalla guerra cubana contro gli Stati Uniti nel 1898, la Spagna domina la vita politica europea degli anni Trenta del Novecento e diventa un’affollata arena dove vanno in scena, come in una gigantesca corrida, tutte le passioni e le ideologie del secolo; socialismo, comunismo, fascismo, anarchismo, tradizionale devozione alla Chiesa cattolica e spietato anticlericalismo. Non è sorprendente che esistano da allora parecchie storie della Guerra civile spagnola, una sterminata memorialistica, testimonianze letterarie (Hemingway, Malraux, Bernanos, Orwell, Koestler), raccolte di corrispondenze pubblicate dalla stampa internazionale e, più recentemente, romanzi dell’ultima generazione di scrittori spagnoli in cui la trama evoca le vicende del Paese fra l’«Alzamiento» dei quattro generali nel luglio 1936 e la caduta di Barcellona nel gennaio 1939.
Pochi conoscevano, tuttavia l’opera di un autore, Manuel Chaves Nogales, che aveva descritto la Guerra civile in nove racconti apparsi in Cile nel 1937 con il titolo A sangre y fuego. Héroes, bestias y mártires de España , tradotti ora in italiano da Elisa Tramontin ( A ferro e fuoco , edizioni laNuovafrontiera, pp. 336, e 16).
Chaves Nogales era nato a Siviglia nel 1898, aveva studiato lettere e filosofia e fatto le prime esperienze giornalistiche nella sua città. Quando giunse a Madrid, nel 1922, non tardò ad affermarsi come uno degli scrittori più promettenti di quegli anni: molti reportage all’estero fra cui un viaggio in aereo nella Russia dei soviet, una visita all’Italia fascista e una a Berlino per una intervista con Joseph Goebbels, ministro della propaganda nazista, che gli parve «ridicolo e impresentabile». Ma scrisse anche racconti, novelle, un romanzo e la biografia di un grande torero del suo tempo ( Juan Belmonte, matador de toros ) che è stata pubblicata in Italia da Neri Pozza nel 2014. Quando scoppiò la Guerra civile era direttore di un giornale repubblicano, «Ahora», e il suo punto di riferimento politico era Manuel Azaña, fondatore del Partito repubblicano, capo del governo in due momenti (tra il 1931 e il 1933, poi per un breve periodo nel 1936), ma anche capo dello Stato dal 1936 al 1939, quando la Spagna era ormai soltanto un campo di battaglia.
Mentre Azaña fuggiva in Francia, Chaves Nogales vi era ormai da due anni. Spiegò la ragioni della partenza nella prefazione alla raccolta dei suoi racconti. Disgustato dal terrore rosso e da quello che gli aerei franchisti seminavano bombardando Madrid assediata, dichiarò di non essere più interessato alle sorti del conflitto: «L’uomo forte, il caudillo, il trionfatore che alla fine poggerà il deretano sul lago di sangue del mio Paese e che con il coltello fra i denti — secondo l’immagine classica — ridurrà in schiavitù gli spagnoli sopravvissuti, può provenire indifferentemente dall’una o dall’altra parte».
I racconti sono il risultato di questa sconsolata constatazione. Lo stile è quello della grande letteratura picaresca, il tono è quello dello scrittore che non cede al vezzo della indignazione e della deplorazione. Vi è il marchese andaluso che va a caccia dei rossi con una nidiata di viziati e crudeli señoritos (come si chiamavano in spagnolo i figli di papà) e con il parroco del castello armato di fucile. Vi sono gli ufficiali franchisti, catturati dalle milizie repubblicane, che rifiutano di aderire alla Repubblica e vengono falciati da una scarica di proiettili contro il muro di un carcere. Vi è un altro parroco che spara ai repubblicani dal campanile della sua chiesa. Vi è il giovane commissario comunista che non alza un dito per evitare che il padre, un ufficiale, finisca di fronte a un plotone di esecuzione. Vi è una «colonna di ferro», composta da disertori che si proclamano anarchici, ma vanno per villaggi ammazzando e rapinando. Vi è un «ometto», il compagno Arnal, che cerca testardamente di salvare quadri e oggetti liturgici dalla furia dei ribelli franchisti in un paese della Mancia, ma muore in uno scontro portando con sé la memoria del luogo in cui era riuscito a nascondere un Greco e altre opere d’arte. Vi è il vecchio caid di una formazione marocchina catturata dai miliziani alle porte di Madrid. Dovrà morire con i suoi uomini e al solo miliziano che aveva cercato di salvargli la vita dice: «Anche un moro ammazzerebbe. Sono cose di guerra e di uomini. Allah è grande».
Vi è la storia di Tiron, il notabile falangista che i repubblicani stanno per fucilare a Valladolid e che può fuggire soltanto grazie alla pietà di una giovane repubblicana. Ma non farà nulla per salvarla quando i franchisti, dopo avere riconquistato la città, la uccideranno con le sue compagne. Vi è Bicornia, un fabbro grosso, forte, padre di una dozzina di figli, assegnato alla guida di un moderno carro armato sovietico, che combatte testardamente con il suo compagno russo sino a quando un bidone di benzina, lanciato da un tetto, trasforma il suo tank in una enorme torcia. Vi è il sindacalista anarchico che odia i comunisti e viceversa. E vi è infine l’autore, spettatore disperato di un dramma in cui tutti sono tragicamente colpevoli.
Chavez Nogales rimase a Parigi fino al 1940. Sapeva di essere nel libro nero dei servizi segreti tedeschi e riuscì a fuggire in Inghilterra dove continuò a scrivere per giornali inglesi e latino-americani. Morì nel 1944 di una peritonite mal curata: una fine non meno assurda di quella toccata in sorte a tanti suoi connazionali.