sabato 6 giugno 2015

Repubblica 6.6.15
Giovanni Botero il gesuita glocal del Cinquecento
Tornano le “Relazioni Universali” del filosofo. Il mondo raccontato da missionari e ambasciatori
di Adriano Prosperi


«Libro veramente ammirabile si è il mondo» — scrive Giovanni Botero nella dedica dell’edizione 1595 delle Relazioni Universali al cardinal Pietro Aldobrandini: un libro che «si legge continoamente e si studia e non manca mai, a chi v’attende, materia o d’essercitar l’ingegno o di pascer l’affetto. S’allarga a chi pensa di ristringerlo, s’affonda tuttavia più a chi crede d’haverne trovato il centro. Suggerisce finalmente del continuo materia di nuova speculatione e di nuova meraviglia a tutti».
Basterebbe questa meraviglia davanti all’inesauribile ricchezza del mondo per rendere avvertito il lettore di quanto questa vasta opera messa insieme dall’autore con strenuo lavoro di più di un ventennio respiri ancora l’atmosfera di un Rinascimento italiano aperto e creativo davanti al rapido mutare delle conoscenze sul globo. Pochi anni ancora e Galilei proporrà di leggere il messaggio di Dio agli uomini non solo nella Bibbia ma nel gran libro della natura, scontrandosi per questo con la scienza e la teologia dei Gesuiti.
Gesuita, Botero lo era stato nella sua formazione; e una volta uscito dalla Compagnia le rimase intellettualmente fedele. Ma, una volta lasciata l’incombenza del predicare e del comporre testi poetici d’occasione, quella che lo dominò fu una passione per la politica nutrita di storia e di geografia. Dopo aver lasciato con la sua Ragione di Stato un segno durevole sulla cultura e sul linguaggio politico europeo dell’epoca post-machiavelliana si misurò coi molti concorrenti attivi nel campo delle informazioni sulle cose del mondo. E vinse la gara dando alle sue «relazioni» una ampiezza universale e riversandovi una massa enorme di conoscenze raccolte via via, con una curiosità rimasta viva fino quasi agli ultimi giorni e riversata nei continui interventi di aggiunte e correzioni.
Nacque così l’opera che ora, grazie all’editore Nino Aragno e alla curatrice Blythe Alice Viola, leggiamo finalmente in una edizione moderna. Meritavano certamente, queste Relazioni Universali, un posto in una ideale biblioteca di classici italiani; su questo non si può che essere d’accordo con quello che scrive Blythe Alice Viola nel saggio introduttivo. Chi per leggerle doveva andarsele a cercare nelle tante edizioni e ristampe che ebbero all’epoca ne avvertiva da tempo l’esigenza. Era un vuoto così evidente che anche chi scrive queste righe ne aveva immaginato e proposto un’edizione. Operazione non facile, proprio per il suo carattere di work in progress, riletto e arricchito e corretto dall’autore fino al lascito manoscritto di un quinto libro edito solo a fine ‘800 da Pietro Gioda.
Ma perché si giungesse finalmente a mettere mano all’impresa occorreva qualcosa che si è verificato solo in questo avvio di secolo: l’emergere nella coscienza comune e nella riflessione storica della globalizzazione come idea e come rapido e violento processo reale. Bisognava insomma che il problema del racconto del mondo come un tutto prendesse forma di esigenza diffusa e mettesse in crisi le antiche divisioni del lavoro intellettuale.
Fino ad allora la fortuna di Botero — dopo il grandissimo successo di edizioni e traduzioni del ‘600 — aveva viaggiato solo grazie a studiosi e interpreti anche di grande qualità come il geografo Alberto Magnaghi e gli storici Federico Chabod e Luigi Firpo, ma curiosamente tutti di area subalpina, quasi che ci si potesse ricordare di lui solo nei dintorni del piccolo centro della “Provincia granda”, di cui Botero era originario.
Oggi si discute molto di «global history» e di «world history», ma l’unico modello novecentesco, quello di Fernand Braudel, appare sempre più inadeguato: chi l’ha sostituito sulla cattedra del Collège de France, lo storico Sanjay Subramahniam, ha raccontato quanto sia stato sempre difficile fare di un sapere costituzionalmente «egoista» come la storiografia una «xenologia », cioè una scienza degli «altri». Ebbene, Botero ha qualcosa da insegnare al riguardo. Intanto, nonostante la sua affermazione che «l’istoria è madre della saviezza umana», non è un caso che le sue Relazioni non siano e non vogliano essere un’opera di storia ma di informazione sul mondo.
Nella politica degli stati moderni così come nella conquista religiosa o economica l’informazione si era guadagnata un posto fondamentale. Si era sviluppato il genere letterario delle relazioni: ne scrivevano navigatori, ambasciatori, missionari, tutti coloro che si muovevano per affari, politica, religione. Botero fu colui che ebbe la forza e la costanza di fare tesoro di tutte le relazioni a cui ebbe accesso, in modo speciale quelle dei missionari gesuiti dall’America, dalla Cina e dal Giappone. Le unificò con una scrittura che ha la forza e i colori dell’italiano letterario all’apice della sua maturità, le fece sue raccontandole in prima persona e chiedendo di essere creduto come testimone de visu — una finzione non nuova, an- nunciante l’incipiente avvento del giornalismo.
«Io ho girato l’uno e l’altro emisfero», scrisse nella dedica a Carlo Emanuele di Savoia. E in quella al cardinal Borromeo si disse giunto «al fine de’ miei lunghi e faticosi viaggi che, per intendere dello stato della relligione Cristiana per il mondo, io intrapresi questi anni passati». Ma soprattutto organizzò le relazioni con una robusta intelaiatura che teneva insieme, sotto le forme del potere, insediamenti umani e culture, risorse ambientali e meraviglie della natura, con l’aggiunta di episodi storici e vicende e scoperte curiose destinate a tenere desta la curiosità del lettore.
Nel suo racconto tutto è umano: anche se qualche editore del ‘600 arricchì l’opera con immagini di umanità mostruose, giocando sull’attrazione sempre viva del meraviglioso medievale, nel mondo descritto da Botero non ci sono più i mostri pliniani, mentre vi abbondano storie di bestialità, di umanità primitive e degradate. Si fa avanti invece nell’ultima parte dell’opera il meraviglioso devozionale della Controriforma, tutto ricavato dalle storie delle missioni gesuitiche: come il «prodigio orribile» della fanciulla peruviana Caterina che, per aver nascosto al confessore i suoi peccati di sesso, finì all’inferno lasciando a infestare i luoghi il suo fantasma — un demonio- peccato, un demonio-donna. Quanto alla religione, acquisita ormai la straordinaria varietà delle sue forme, essa appare come un fattore essenziale dei livelli di civiltà, graduabili secondo l’impostazione del gesuita José de Acosta non come immutabili dati di natura ma come stadi di un processo evolutivo affidato alla grandezza dello stato e all’accortezza del sovrano. Ed è tipico del forte senso boteriano del nesso tra potere statale e religione il fatto che, più dei successi orientali di Francisco Xavier, quello che gli interessa è l’avanzata dell’impero spagnolo in America: un’avanzata che si porta dietro la conversione di interi popoli e promette così al cristianesimo cattolico di vincere la gara con le altre religioni mondiali — l’Islam in primo luogo, una religione che Botero propose di provocare con la diffusione di satire a stampa del Corano: un’idea ricca di futuro, come sappiamo.
IL LIBRO Giovanni Botero, Le relazioni universali (a cura di Blythe Alice Raviola, Aragno, 2 voll., euro 60)