venerdì 5 giugno 2015

Corriere 5.6.15
Tutti i totem di Sebastian Matta ispirati ai «maestri» Marx e Freud
di Sebastiano Grasso


I doli arcaici, totem tribali, anfore che finiscono per assomigliare a teste mostruose (non fatte certo per contenere liquidi, ma per suggestionare), sedie con le corna (per cui se qualcuno si siede...). Una ventata di surrealismo bronzeo ha invaso il giardino veneziano di Palazzo Soranzo Cappello. «Evento collaterale della 56ma Biennale». Uno dei tanti. Stavolta si tratta di una quarantina di sculture di Sebastian Matta (1911-2002).
La mostra (sino a 15 ottobre) è curata da Flaminio Gualdoni e da Alessia Calarota (catalogo Silvana). Un ritorno a Venezia, anzi alla Biennale. Anche nella scorsa edizione (2013), infatti, Matta aveva fatto capolino nella mostra d’arte internazionale della Laguna (quale migliore teatro?). Sempre come evento collaterale, alla Fondazione Querini Stampalia, con due dei sei figli: Gordon Matta-Clark (1943-1978) e Pablo Echaurren (1951). Una festa di famiglia, anche se con un solo superstite.
Le sculture vanno dagli anni Settanta al 1993. Un certo numero sono state fuse nel 2009 (Matta è morto nel 2002), come riportato fedelmente in catalogo. Già negli anni Quaranta, l’artista disegnava figure primitive che ricordavano l’universo magico dell’America Latina; soggetti arcaici, stilizzati, frutto di una inesauribile, straordinaria fantasia. Non si dimentichi che Matta, anche se di famiglia basca, era nato a Santiago del Cile e che la sua formazione aveva risentito prima della cultura precolombiana e cilena, poi, una volta venuto in Europa, di quella mediterranea ed etrusca. Aggiungete il suo apprendistato nella tribù surrealista e il gioco è fatto.
Figure «strane», s’è detto; un po’ come i suoi animali, non contemplati nei testi di zoologia, o come i suoi fiori senza profumo. A Parigi, Matta aveva cominciato a lavorare come architetto nello studio di un genio come Le Corbusier. Solo che all’architettura tradizionale aveva preferito quella fantastica. Una buona mano, in questo senso, gliela aveva data la scrittura automatica di Breton.
Intrapresa la strada, non l’aveva mai abbandonata, anche se era rimasto per suo conto e con le sue regole («Ero come Gesù nel tempio coi dottori della legge: un fanciullo. Mi diedero un credo, affetto e l’iniziazione al verbo essere»). E il Surrealismo «dogmatico»? Non faceva per lui; così lo aveva trasformato secondo necessità («Miravo a cogliere il cambiamento, come mi aveva insegnato Duchamp»). Matta voleva scavare nell’uomo, vedere all’interno e fuori della realtà percepibile («Marx e Freud sono molto più pittori di Delacroix perché vedevano le realtà nascoste; ed è questa la funzione del verbo vedere»). Anche se nel caso particolare si riferiva alla pittura, la stessa considerazione vale per le sculture.
Si faccia attenzione alla loro composizione: idoli giganti che ne assorbono altri; simboli vari; aperture che ricordano gli sportelli delle cucine di ferro d’una volta; tavole segniche con linguaggi misteriosi; intarsi; fregi; copricapo ironici; frammenti di un po’ di tutto.
Un’opera è intitolata Leonardando Vinci : vaso con una struttura «arabescata» (grandi ali di pipistrello?) che, naturalmente, richiama il genio rinascimentale. A proposito del ruolo dell’artista, Matta cita spesso Leonardo che gli aveva insegnato «come sia necessario andare al di là dell’apparenza per vedere la realtà virulenta nella quale navighiamo».
Alla fine, conclude Matta, «chiamiamo realtà solo i frammenti della fenomenale tempesta quotidiana che la nostra percezione limitata, mutilata, manipolata maschera».
A questo punto è necessaria una mediazione. Chi può darla? Soltanto un artista. Quale? E, poi, Matta a chi pensava di assomigliare? «Non lo so – diceva -, credo di essere Chaplin». Ma era convinto anche di essere un ciclone. Che inglobava le vibrazioni delle ali di una mosca, il sistema di una farfalla o quello della zampa di una pulce. Parole di Lautréamont quando invitava a questo tipo di riflessione: «Bello come lo sviluppo d’una malattia polmonare».
A Matta piaceva citare questa frase piuttosto feroce perché egli era feroce. Presentando nel ’63, a Milano, la mostra dell’artista cileno, alla galleria di Arturo Schwarz, Italo Calvino lo aveva definito: aggressivo, allegro e feroce.
Ma solo essendo così, aveva concluso, si può scoprire su questo mondo «quali vie, quali sussulti e spasimi, quali smorfie e quali atti inconsulti si agitano, come mosse dal suono d’un sassofono sotterraneo».