venerdì 5 giugno 2015

Corriere 5.6.15
Quanto costa un anno di vita in più
Ai confini della bioetica: i farmaci anticancro, efficaci ma carissimi, che i governi scelgono di non rimborsare
di Pierluigi Battista


Il dibattito sui farmaci anticancro più cari che alcuni governi decidono di non rimborsare
nella guerra che la medicina non riesce ancora a vincere contro il cancro, c’è il rischio che due, tre anni di vita da «vivi» debbano esibire il cartellino con su scritto un prezzo. Siano sottoposti a una scelta politica in un programma mirato di risparmi della spesa pubblica. L’ultimo caso? Il sistema sanitario inglese che nega il rimborso dell’«olaparib», nuovo farmaco importantissimo per affrontare il tumore all’ovaio.
«Non lasciare che io muoia mentre sono ancora vivo». Sono le parole di una preghiera ebraica che Sheryl Sandberg, ceo di Facebook, ha voluto trascrivere nel ricordo di suo marito Dave, morto esattamente un mese fa. Solo «adesso», scrive la Sandberg, è riuscita ad afferrarne il senso. Solo adesso ha capito il significato che il tempo ha nella vita di una persona. Un valore incommensurabile, quando si è «ancora vivi». Adesso invece, nella guerra che la medicina non riesce ancora a vincere contro il cancro, c’è il rischio che due, tre anni di vita da «vivi» siano costretti a esibire il cartellino con su scritto un prezzo. Siano sottoposti a una decisione politica in un programma mirato di risparmi della spesa pubblica. Diventino merce di scambio per evitare la bancarotta del Welfare.
Lo ha scritto Adriana Bazzi sul Corriere: il sistema sanitario inglese nega il rimborso dell’«olaparib»,un nuovo farmaco importantissimo per affrontare il tumore all’ovaio, circa 5.700 euro mensili per ogni paziente. La stessa cosa è avvenuta qualche mese fa per una molecola utile per aiutare la battaglia contro il cancro al seno. Si oltrepassa un confine bioetico sottile. Si negano le cure a un malato che potrebbe guadagnare anni di vita. Si lasciano morire donne e uomini che sono ancora vivi, parafrasando la preghiera citata dalla Sandberg. Gli economisti più attenti se ne erano accorti già da tempo .
Uno studio, intitolato «Rapporto Sullivan», prevedeva che le nuove medicine antitumorali avrebbero pesato con un costo insostenibile per i conti dei sistemi sanitari. Amartya Sen si era già impegnato, inascoltato, per lanciare «un Health Impact Fund che punta a remunerare le industrie che distribuiscono i nuovi prodotti». Perché è inutile girare attorno alla questione con perifrasi, eufemismi, formule edulcoranti, rassicurazioni ipocrite. È inutile negare che la ricerca per nuovi farmaci contro il cancro molto spesso non «guarisce», non lascia aspettative di vita lunghissime, non sana in modo definitivo. Ma aiuta a prolungare la vita, a permettere ai vivi di restare vivi altri anni, e la Sandberg ha spiegato bene cosa significa che importanza ha la vita quando si è «ancora vivi», fosse solo per un mese in più. Ma allora, possono legittimamente sostenere gli economisti, i politici, i responsabili dei bilanci, chi è attento alla stabilità dei conti, chi si muove sul terreno razionale del rapporto costi-benefici, se non si tratta di guarire, ma di prolungare di qualche anno la vita, ha un senso dissanguare le finanze pubbliche per qualche centinaio di giorni in più? Che prezzo ha mantenere in vita quelli che «sono ancora vivi» per qualche mese, qualche anno, senza la speranza di una guarigione definitiva?
Quanto costano due anni di vita in più? Questa è la nuova domanda bioetica che saremmo prima o poi costretti ad affrontare. La battaglia contro il cancro ha fatto passi giganteschi. Oramai si ottengono risultati dalla medicina, dalla chirurgia, dalla radioterapia, insperati fino a qualche anno fa. Ma dobbiamo convivere con la fine di un’illusione: che prima o poi venga scoperta una pillola miracolosa in grado di debellare il cancro, la terapia risolutiva, definitiva che farà ricca l’industria farmaceutica che la troverà dopo aver finanziato la ricerca e potrà essere distribuita a prezzi contenuti perché la sua diffusione universale porterà gigantesche remunerazioni a chi ha avuto la fortuna e la bravura di scoprire la formula magica. No, oramai la ricerca ha preso una direzione opposta: punta all’individualizzazione della cura, non alla sua universalizzazione come è avvenuto e tuttora avviene con la chemioterapia, alla singola mutazione genetica da colpire con farmaci miratissimi. E che dunque, potendo raggiungere una fascia ristretta di malati, non potrà che produrre farmaci costosissimi. Come i 5.700 euro al mese per l’«olaparib» di cui scrive Adriana Bazzi: come è possibile sostenere a lungo costi così elevati?
Ma come è possibile negare anni, o forse mesi di vita a chi ancora può vivere decentemente e addirittura brillantemente? Che può vivere pienamente, non inchiodato a un letto in un’agonia angosciosa e dolorosa, ma nella ricchezza di un’esistenza piena di affetti e di luoghi, di persone, di volti, di gusti, di viaggi? Vita vera, e non un antipasto della morte? Ecco perché la decisione del sistema sanitario inglese trasmette una grande angoscia, mortifica chi è malato e non vuole che lo si «lasci morire» e non vuole per di più essere colpevolizzato per la bancarotta del Welfare. Cancella speranze fondamentali. Perché non c’è solo la speranza di guarire, ma quella di vivere ancora, di prolungare l’esistenza riempiendola ancora di senso e di significato. E le politiche del bilancio pubblico non possono pensare che due anni di vita, tre anni di vita, cinque anni di vita siano troppo costosi, che siano insostenibili. Se esiste qualcosa che assomigli alla «bioetica», ora è il caso di intervenire. Non lasciate che muoia la speranza fino a che è ancora viva.