venerdì 5 giugno 2015

Corriere 5.6.15
Il «Mondo di Mezzo» e la metafora della vacca capitolina
di Emanuele Trevi


Presumibilmente una nuova valanga di intercettazioni accompagnerà anche questa nuova fase dell’inchiesta sulla cosiddetta «Mafia Capitale». Inutile premettere che tali documenti servono a ben altro che a spigolarli in cerca di espressioni colorite e rivelatrici. Ma gli appassionati dell’ormai celeberrimo «Mondo di Mezzo» troveranno altro pane per i loro denti. Come ci è stato sempre ripetuto, ormai da un secolo il romanesco, più che un dialetto, è un’inflessione. Nella testa di noi romani, però, questa parlata che suscita odio in ogni altra parte d’Italia è uno straordinario strumento per conferire al discorso un certo grado di efficacia e memorabilità. E ci rimaniamo male, quando gli altri, semplicemente, non ci capiscono. Ma anche tra di noi, è tutto un metterci alla prova. Hai capito? Hai capito bene? Soprattutto chi escogita un modo di dire, o un paragone, sorveglia il suo successo nel mondo come se si trattasse di una figlia al ballo delle debuttanti. Non è vero che siamo schiavi della battuta, noi siamo schiavi della metafora. È così che va psicologicamente inquadrata quella grande vacca che emerge, come una bestia mitologica, dai nuovi scartafacci degli investigatori. A dire tutta la verità, non si può affermare che sia un’immagine molto originale. Ma solo i dilettanti credono che la novità sia la cosa più importante. Caso forse unico nella storia universale delle lingue, la metafora romanesca sottintende che gli altri non siano proprio delle cime. È dunque necessario un livello di chiarezza che impedisca all’interlocutore di far finta di non capire. Questa vacca capitolina, che sembra in grado di spodestare le solite aquile e le solite lupe, mangia (pardon: magna) e si fa mungere. In questo ciclo risiede la felicità dell’animale totemico e di conseguenza quella di tutta la città. Se non magna, non la puoi mungere; se non la puoi mungere, non ha magnato. Chi ha visitato le città dell’India, dove le vacche come si sa la fanno da padrone, potrebbe trovarci addirittura un sapore di induismo. Ma una vacca de Roma è una vacca de Roma. Indifferente a tutto, aspetta solo di mangiare e venire munta. La sua non è una vita, ma un ciclo immutabile che va salvaguardato anche a costo della totale perdita di significato. Alla fine, meditando la metafora come merita, può sopraggiungere un terribile sospetto: non è che la vacca capitolina si nutre del latte che le viene munto e si fa mungere per mangiare ancora? Sarebbe, in questo caso, una bellissima immagine dell’economia del crimine quella che ci regalano le intercettazioni. Un equilibrio di investimenti e ricavi che ha il solo scopo di nutrire se stesso. Di mantenere grassa la vacca, a scapito di ogni buon senso.