Corriere 5.6.15
La politica in vendita e gli anticorpi necessari
di Giovanni Bianconi
Nuovo capitolo nella trama del «Mondo di mezzo». Si racconta un altro pezzo dell’imbroglio pianificato a tavolino: il sistema corruttivo è risultato talmente diffuso, autoalimentato e condizionante, da diventare esso stesso una sottospecie di mafia. Dal punto di vista culturale e della mentalità che contiene in sé, prima ancora che sul piano penale.
La prima trama del «Mondo di mezzo» raccontava di un gruppo di persone, qualificato come «associazione mafiosa», che utilizzava la corruzione come strumento di pressione e di conquista del tessuto amministrativo di Roma; ipotesi confermata dalla Corte di cassazione, per la quale è già stato fissato un processo che comincerà all’inizio di novembre. Ora si apre un nuovo capitolo, che racconta un altro pezzo dell’imbroglio pianificato a tavolino: il sistema corruttivo è risultato talmente diffuso ed esteso, autoalimentato e condizionante, da diventare esso stesso una sottospecie di mafia. Dal punto di vista culturale e della mentalità che contiene in sé, prima ancora che sul piano penale. Per via dei comportamenti che impone, e del metodo anche intimidatorio — in forme dirette o indirette — sul quale si fonda.
Nelle nuove carte scoperte dalla Procura di Roma c’è un esempio di «fecondazione in vitro di una corruzione da asservimento» (così la definiscono i pubblici ministeri) svelata dalle parole di un consigliere comunale della maggioranza che sembra quasi offrirsi a Salvatore Buzzi come amministratore in vendita. Dopo aver discusso di ciò che bisognava fare, il «re delle cooperative» lo rassicura: «Poi ti ricambio, non ti preoccupare… siamo riconoscenti». E l’amministratore locale aderisce volentieri, dando per scontato che così vadano le cose: «Sì, lo so… come vi rapportate di solito coi consiglieri… C’è il guadagno, no? La percentuale». Un sistema già rodato, insomma, al quale ci si adegua con la prospettiva di guadagnare qualcosa mettendosi a disposizione per favorire accordi e spartizioni che poco o nulla hanno a che fare con il buongoverno di una città.
Poi c’è l’aspetto legato a metodi di convincimento più tradizionali ma sempre efficaci, come quello narrato in una conversazione con Massimo Carminati in cui Buzzi parla di un funzionario che notoriamente «piglia i soldi», quindi «andiamocelo a comprà». E Carminati spiega che per rimuovere possibili ostacoli frapposti da qualche impiegato non ci sono che due strade: «O si caccia o si compra… se si compra è meglio».
Infine ecco l’intercettazione dove si fa valere il passato e il presente di personaggi che — secondo l’impostazione dell’accusa — costituiva il «capitale criminale» dell’organizzazione infiltratasi in ogni ganglio dell’amministrazione. «I consiglieri comunali devono stare ai nostri ordini» perché io «te pago», afferma Buzzi. Con un’aggiunta significativa: «E se non rispetti gli accordi, tu lo sai chi sono io? Lo sai da dove vengo?». A quel punto Carminati evoca il dovere del «rispetto», e il suo socio vanta la «grandissima credibilità» conquistata sul campo con simili sistemi.
Così è stata comprata e inquinata la politica nella capitale d’Italia, cancellando ogni distinzione tra destra, centro e sinistra. Anche attraverso veri e propri ricatti come quelli confessati da un altro indagato: «Ho dovuto fare una trattativa un po’ sgradevole con questi qua…».
Si tratta di intercettazioni, certo, e come tali sono state trattate dagli inquirenti secondo le regole del garantismo: le semplici parole registrate dalle microspie non bastarono, sei mesi fa, ad arrestare persone che all’epoca furono solo inquisite; oggi sono finite in carcere, o ai domiciliari, sulla base dei riscontri cercati e trovati dagli investigatori del Ros: dal denaro effettivamente versato (quando i crediti non sono stati onorati in contanti, come qualcuno degli indagati ha preteso e ottenuto) alle assunzioni di parenti e altre persone appositamente segnalate; in tempi di crisi anche un posto di lavoro può trasformarsi nel prezzo della corruzione. Tuttavia anche in questo caso vale la regola del buon senso, e al di là delle necessarie verifiche per dare consistenza alle frasi intercettate, è difficile immaginare che dei soci in affari millantino situazioni inesistenti quando discutono tra loro di lavoro; indipendentemente dal fatto che siano complici nella commissione di eventuali reati.
Per questo, prima delle prevedibili strumentalizzazioni e di tornare a polemizzare se si tratta di vera mafia oppure no, se le accuse resteranno quelle già confermate dalla Cassazione o saranno derubricate, sarebbe utile che la politica — romana e non solo — ne prendesse atto una volta per tutte. E trovasse soluzioni adeguate. Senza rifugiarsi — come fa di solito — dietro i necessari accertamenti giudiziari, aspettare la celebrazione dei vari gradi di giudizio o le conclusioni del prefetto sull’esistenza o meno delle condizioni formali per lo scioglimento di un consiglio comunale. Il marcio emerso finora è sufficiente a destare il giusto allarme e a prendere le contromisure necessarie. Nella speranza che per una volta si dimostrino efficaci.