mercoledì 3 giugno 2015

Corriere 3.6.15
L’analisi di Renzi sulle urne: in periferia il cambiamento non lo abbiamo dimostrato
di Maria Teresa Meli


ROMA «Ora arriva il bello»: il segretario-premier in realtà, ieri, era in tutt’altre faccende affaccendato. Pensava al prossimo — e vicino — G7, ma, inevitabilmente, con l’attenzione volta anche al partito. «Vedo — spiegava ai collaboratori che gli portavano i dossier del vertice internazionale — che nella minoranza c’è chi chiede un chiarimento. In realtà sono io che lo chiedo, perché sono stufo di questo andazzo, che rischia di rendere l’Italia un Paese poco credibile».
È questo quello che il premier non sopporta: l’idea che mentre lui spiega all’Europa che il «fiscal compact è diventato un problema», arrivi un «D’Attorre qualsiasi a sciorinare emendamenti su emendamenti contro una qualsiasi riforma che ci renderebbe più forti nei confronti della Ue». A tutto, secondo Renzi, c’è un limite. E per quello che lo riguarda quel confine è stato abbondantemente superato.
Il presidente del Consiglio lo ha spiegato ai fedelissimi: «Basta con i tentativi inutili di mediazione con la minoranza interna di Bersani. Abbiamo dato. Dobbiamo fare meno compromessi al ribasso, sennò il popolo del Pd non ci capisce, cosa che è stata ampiamente dimostrata da queste elezioni». E ancora: «Non è più accettabile che ci siano gruppi organizzati dentro il partito che non votino la fiducia a riforme che il governo ritiene delle priorità. Basta».
È una minaccia, finora, quella di Renzi: «Avevo detto e ripetuto che i bilanci li avremmo fatti a urne chiuse e quindi ora è giunto il tempo di farli», spiega ai suoi. Una minaccia che serve anche a saggiare la resistenza di quell’area che si oppone al segretario «senza se e senza ma». Un avvertimento che serve anche a capire da quale parte vogliono posizionarsi i quarantenni della minoranza bersaniana. Gli Speranza e gli Stumpo, per intendersi. Vogliono seguire Bersani? O accettano una normale dialettica interna, dove «è chiaro che se la maggioranza prende una decisione la si rispetta nei gruppi parlamentari?».
A loro la decisione. Perché con la minoranza morbida dei Damiano e degli Amendola, il premier è già pronto al dialogo. E non solo. Ci sono posti di governo e di sottogoverno. Ci sono presidenze di Commissione che vanno riconfermate, la maggior parte del centrodestra, ma alcune anche dei bersaniani come la «Attività produttive» di Montecitorio, attualmente guidata da Guglielmo Epifani. Insomma, ci sono posti da distribuire.
Nella direzione di lunedì prossimo il premier dimostrerà che è pronto a offrire un ramoscello d’ulivo solo alla minoranza che non cerca lo sgambetto e «la coltellata alla schiena», a quella che non lo «boicotta per principio»: «Voglio il pieno coinvolgimento di quell’area minoritaria che ci ha appoggiato, che ha fatto delle proposte di modifica alle nostre leggi non per pregiudizio e che, infatti, noi abbiamo in parte appoggiato».
Per farla breve: non solo la minoranza che ha già deciso di abbandonare Bersani, ma anche quella che, seppur tra mille dubbi, ha finora seguito la linea oltranzista dell’ex segretario dovrà decidere in tempi brevi, anzi, brevissimi, che cosa fare, «perché così non si può andare avanti». Anche perché l’azione del governo «va potenziata»: «Ci vuole più velocità sulle riforme». Ma per raggiungere questo traguardo ci vuole un «partito unito», non un Pd, «dove ci sono gruppi pronti a preparare agguati al segretario e al governo».
D’altronde, secondo Renzi, anche per questo il Pd è stato frenato dalle elezioni: «Lo sappiamo tutti che i nostri militanti non amano le liti e dovrebbero saperlo anche quelli che hanno aperto un contenzioso nella speranza che il Pd perdesse punti e che, quindi, io ne uscissi ammaccato».
Il che non vuol dire che Renzi neghi l’evidenza: «L’astensionismo questa volta ha colpito noi, perché noi non abbiamo dimostrato anche in periferia che il partito è cambiato sul serio. Non abbiamo perso voti a sinistra, perché la sinistra siamo noi, quella che crea i posti di lavoro e elimina le diseguaglianze».
Ma il nemico questa volta il premier potrebbe averlo in casa: tra quei renziani sostenitori di Delrio che vorrebbero arginare il «giglio magico» e regalare la vicesegreteria unica a un ex Ds come Enzo Amendola per non esacerbare ulteriormente gli animi.