martedì 2 giugno 2015

Corriere 2.6.15
Pd diviso, l’offensiva di Renzi
Resa dei conti per la sconfitta in Liguria
Il premier: chi viola le regole si mette fuori da solo
di Maria Teresa Meli


«Chi non vota la fiducia al governo si mette fuori da solo»: il presidente del Consiglio Matteo Renzi prepara la resa dei conti con la minoranza del Pd dopo il risultato delle Amministrative. «È finita 5 a 2, per me va bene», dice: ma pesa la sconfitta in Liguria, frutto anche, spiega, di «tradimenti». Tutte le forze politiche hanno perso voti, tranne la Lega di Matteo Salvini, forza trainante della coalizione di centrodestra. Esulta anche il fondatore del M5S, Beppe Grillo. E mentre si completa lo spoglio delle Comunali, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, constatando il dato allarmante dell’astensionismo, richiama i partiti: «Il conflitto provoca sfiducia e allontana la partecipazione».

ROMA Matteo Renzi è Matteo Renzi, e, con buona pace dei suoi avversari politici e non, quello rimane. «Pensate che questo voto, solo perché la Liguria è andata a Toti mi fermerà? Sbagliate, io andrò avanti più deciso di prima. È finita cinque a due, per me va bene».
E il primo assaggio dell’immutato comportamento del premier l’avrà la minoranza che lo ha combattuto, apertamente o in maniera più defilata in queste elezioni, un nome per tutti Pier Luigi Bersani: «Lunedì, quando ci sarà la direzione ci guarderemo tutti finalmente nelle palle degli occhi e voglio vedere che cosa ha il coraggio di dire chi ha rilasciato dichiarazioni contro il partito al Corriere proprio il giorno del voto». Questa volta non sarà il solito annunciato — e rimandato — redde rationem. Questa volta il segretario chiederà impegni precisi: «Chi non vota la fiducia al governo fa una scelta legittima, ma si mette fuori da solo». Basta giochi e giochetti. Chi vuole stare nel Pd ci sta, chi invece preferisce stare altrove, si accomodi: «Non è più possibile violare sistematicamente le regole del vivere comune».
Per farla breve, quello che Bersani e i suoi sodali hanno sempre chiesto ai loro compagni di partito quando erano maggioranza sarà chiesto anche a loro. Altrimenti... Altrimenti si può sempre stare fuori dal partito senza drammi e senza tormentoni. Del resto, un eventuale abbandono della minoranza non sarà un dramma. Come dicono i renziani: «Forza Italia imploderà e quindi al Senato si formerà un gruppo, non verdiniano, pronto a reggere la legislatura fino al 2018».
Ma non è solo di sanzioni disciplinari o tradimenti («che pure ci sono stati») che il presidente del Consiglio vuole parlare in questo dopo voto. Renzi non si nasconde dietro Luca Pastorino. Sarebbe troppo facile. Oltre che ridicolo. Ciò che tormenta il premier è perché «un partito che secondo tutti, ma proprio tutti, i sondaggi va dal 36 al 37 per cento, alle Regionali scende giù, e di molto». Un prima risposta il presidente del Consiglio se l’è data: i candidati non rappresentano appieno il Pd versione renziana. Ma questo non basta. Il segretario premier si è reso conto che non può «non tener conto dei segnali che l’elettorato ha voluto lanciare». Anche con l’astensione in Liguria, che è stato ben più determinante del centrodestra e della defezione di Luca Pastorino.
«Quel segnale — ha spiegato Renzi ai fedelissimi — dobbiamo coglierlo appieno e interpretarne tutte e due le indicazioni che ci manda». La prima «riorganizzare il partito, che forse ho trascurato troppo». Il che, tradotto dal politichese in italiano significa mettere un nuovo vertice a capo del Pd. Ettore Rosato, attuale vicecapogruppo del Pd a Montecitorio, dicono i bene informati. Lui, perché è abile e addentro alle logiche del Pd. Lui perché consentirà all’uomo forte di Renzi, ossia Luca Lotti, di capire che cosa sta succedendo, di ovviare ai problemi e di informare in presa diretta il premier segretario delle questioni più spinose.
Ma non è solo il Pd il problema del Pd. E non si tratta di un gioco di parole. Certo, si trattava di elezioni regionali, certo le Regioni sono le istituzioni «più screditate» d’Italia, ma il presidente del Consiglio sa bene che anche l’azione di governo, per quanto lui lo abbia negato e continui a negarlo, ha avuto un ruolo in queste elezioni regionali. C’è un tema che sopra ogni altro ha contato. Quello dell’immigrazione. «Su un tema come questo, comunque noi si decida, la sinistra fa il bagno», aveva profetizzato in tempi non sospetti il premier spiegando al ministro dell’Interno Angelino Alfano perché il nostro Paese avrebbe fatto bene a tenersi lontano da questo problema.
Gli eventi hanno deciso altrimenti e hanno premiato il leader leghista Salvini che sugli immigrati (e i Rom) ha idee tanto semplicistiche quanto brutali. Però sono quelle che sono piaciute agli elettori, persino a quegli umbri (pd inclusi) e hanno consentito al centrodestra di arrivare vicino al centrosinistra quanto mai era successo.
Che fare? Il premier, che, come è noto, non ama i tempi morti, comincerà a occuparsene già oggi, perché sa che alle storie cupe ed emergenziali di Salvini bisogna rispondere con uno «storytelling» convincente.
Il secondo punto di debolezza del governo è la mancata azione sulla povertà. Il tesoretto era stato costruito per quello. La Corte costituzionale lo ha destinato altrimenti, ma Renzi non demorde.