domenica 21 giugno 2015

Corriere 21.6.15
La svolta che Renzi può ancora fare
di Ernesto Galli della Loggia


Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare. Verosimilmente solo così potrà superare con successo lo scoglio delle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), senza di che, egli lo sa bene, la sua carriera politica sarebbe virtualmente finita. Cambiare, dunque. E infatti pare che egli abbia detto «Tornerò a fare Renzi», cioè, sembra di capire, tornerò ad essere quello che nel giro di un anno, di slancio e senza fare compromessi, conquistò a suo tempo la segreteria del Pd e il governo del Paese.
Non è detto, però, che proprio questa sia la ricetta giusta. Il cattivo risultato elettorale del Pd sta a indicare, infatti, che forse proprio quel Renzi lì, quel personaggio e quei modi che hanno funzionato egregiamente nella fase della conquista del potere — un aspetto simpaticamente spigliato, capacità di trovare formule sintetiche per comunicare, una diversità accattivante rispetto al resto della classe politica, un piglio sbrigativo — quel personaggio e quei modi, dicevo, risultano forse assai meno utili quando si tratta di governare (non sarebbe del resto la prima volta). Si può ragionevolmente dubitare, ad esempio, che tuittare in misura frenetica o frequentare i talk show di ogni risma affidando i propri messaggi politici a Barbara D’Urso sia il modo migliore per sostenere l’azione di governo.
Insomma, ciò che in questo anno al presidente del Consiglio non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider «fiorentino» al Renzi «italiano» di Palazzo Chigi.
Non è solo una questione di forma. Si prenda per esempio il caso della «squadra», dei suoi collaboratori più vicini. In questo caso specialmente sarebbe stato forse necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che invece non sembra esserci stato. Peccato, perché gli uomini politici di rango, quelli che un Paese deve augurarsi di avere alla propria testa, si distinguono anche, se non specialmente, per questo aspetto: per il fatto di circondarsi di persone di valore, pur sapendo che all’occasione persone simili parlano fuori dai denti, potranno contraddirli. Ma le persone di valore sono preziose anche perciò: perché non si limitano solo ad obbedire. In politica come altrove la fedeltà è un’ottima cosa, infatti, purché però faccia rima con sincerità. Egualmente sarebbe meglio che coloro che in televisione parlano a nome del presidente del Consiglio, ne sostengono la causa, si sforzassero di farlo con maggiore capacità argomentativa, con minore ricorso a frasi fatte e a slogan che dopo un po’ mostrano la corda.
Collaboratori capaci, tratti da ambienti diversi, di solide competenze, servono a conoscere e a risolvere i problemi, a immaginare soluzioni adeguate, a essere il centro motore di una forte azione di governo, a produrre consenso. Servono a mantenere aperti canali di comunicazione con tutta la società italiana nelle sue mille e complesse articolazioni; e non soltanto con gli ambienti dell’industria e della finanza, nell’idea (sbagliata) che siano questi i soli ambienti che contano.
Ma da un presidente del Consiglio come Renzi l’opinione pubblica si aspettava soprattutto la novità dei contenuti. Sarebbe ingiusto dire che tali contenuti siano mancati. Alcune riforme significative sono state approvate (penso al Jobs act soprattutto) o messe in cantiere, anche se in alcuni casi tra i più significativi (ad esempio la riforma del Senato o quella della scuola) queste stesse riforme sono apparse prive di una sufficiente ispirazione di principio portata avanti con decisione e coerenza. Ma il punto decisivo, a me pare, è che questi contenuti non sono mai riusciti a saldarsi in un vero discorso al Paese e sul Paese: a trasformarsi cioè in un vero discorso politico in grado di suscitare nel pubblico quel senso di identificazione che diviene consenso elettorale. Da questo suo giovane presidente del Consiglio spregiudicato e così pieno di vita l’Italia si aspettava sì dei fatti, delle iniziative concrete, ma anche qualcosa di simile, io credo, a un bilancio e a un esame di coscienza: le sole cose da cui è possibile che prenda avvio quel «nuovo inizio» di cui abbiamo bisogno. Di cui il Paese sa nel suo intimo di aver bisogno. Esso avrebbe voluto capire dalla sua voce perché ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo, in che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa possiamo sperare. Voleva sentire un discorso serio, alto, magari anche drammatico, ma che non fosse fatto solo di richiami all’ottimismo. Un discorso che evocasse il senso di un cammino da intraprendere, che indicasse una prospettiva in cui credere.
Da tempo, infatti, è come se avessimo perso il filo della nostra storia, dopo tutto una storia non indegna. Abbiamo bisogno di ritrovarlo: e alla fine un compito del genere solo la politica può assolverlo. Nel pieno di una stagione difficile l’Italia voleva, e vuole, una guida. Matteo Renzi ha oggi le carte in mano per esserlo più di qualunque altro: ma deve liberarsi di molte scorie e paradossalmente crederci di più. Con più consapevolezza, più autorevolezza, orizzonti più larghi.