Corriere 19.6.15
Il Pd non può ignorare le radici di una sconfitta
di Roberto Speranza
Caro direttore, il suo stimolante editoriale ( Corriere , martedì 16 giugno) mi ha spinto a scriverle. Concordo con lei sul fatto che il voto alle Regionali ci consegna un panorama politico nuovo e largamente imprevedibile soltanto pochi mesi fa. Il Paese appare nuovamente contendibile e questo non può che essere oggetto di una seria riflessione.
Non credo sia fondata l’idea che il Partito democratico abbia subito questa battuta d’arresto perché nelle periferie prevarrebbero ancora candidati ed esponenti ostili al segretario. Così non è perché, in forza delle primarie del dicembre 2013, Renzi ha eletto 19 segretari regionali su 21 e la «renzizzazione» è proceduta speditamente sia al centro, sia in periferia, dove si è affermata nel corso di questo anno e mezzo una classe dirigente legata al segretario del Pd, seppure divisa tra «renziani» della prima, della seconda, della terza e persino della decima ora. Non mi convince la stessa idea che i candidati che si sono imposti con le primarie siano tutti anti-renziani, anche perché il loro sostegno — penso a Emiliano e De Luca — è stato fondamentale nel determinare la vittoria di Renzi al congresso del 2013 con percentuali altissime. E nuovi volti, compiutamente neo-renziani e per questo acclamati — penso a Paita e Moretti — sono stati proposti proprio perché, con il loro percorso e le loro scelte, sostenevano e rafforzavano il nuovo corso.
In realtà questo voto ci consegna una situazione più complessa, a partire dal dato di fatto che il Pd perde sia a Venezia — con un candidato che ha sostenuto Civati al congresso — sia ad Arezzo — con un volto compiutamente renziano. La cosa migliore da fare è guardare in faccia la realtà e in particolare tre fattori, a partire dalla considerazione che, con la cosiddetta «sconfitta» del 2013, il Pd sta governando l’Italia, prima con Letta e ora con Renzi, svolgendo un ruolo di perno dell’intero sistema politico.
Il primo riguarda la presenza di un significativo astensionismo critico e politicamente avvertito, anche all’interno dell’elettorato del Pd, che non si mostra soddisfatto della curvatura data al partito, e dell’azione del governo su temi caldi come il lavoro e la scuola.
Il secondo concerne un maggiore potere di fare coalizione della destra, che quando si riorganizza riesce a ottenere risultati positivi.
Il terzo riguarda il comportamento del Movimento 5 Stelle, il cui elettorato, quando il proprio candidato è escluso dal ballottaggio, non va a votare il rappresentante del centrosinistra, favorendo così la vittoria della destra, e quando invece è al ballottaggio riesce a far convergere su di sé tutti i voti possibili, così riuscendo a prevalere sul candidato democratico, che magari aveva vinto al primo turno (come avvenuto, ad esempio, a Porto Torres). Tale dinamica di funzionamento del ballottaggio dovrebbe indurre a riflettere meglio sull’Italicum, anche in presenza del crescente astensionismo.
Davanti a noi, a mio parere, c’è una sola strada: quella di lavorare all’unità del Partito democratico, come avvenuto per l’elezione del presidente della Repubblica Mattarella. Un’unità di intenti e di azione che non può trovarsi per via disciplinare, rinverdendo i metodi di un neocentralismo democratico 2.0, ma attraverso un lavoro di ascolto, confronto e mediazione nel merito delle singole questioni, un compito e una responsabilità che sono proprie del segretario di un grande partito, articolato e complesso come il Pd. Noi ci adopereremo per realizzare tale unità, nella convinzione che se il Pd continuerà a dividersi tra «gufi» e «struzzi», rischia soltanto di favorire i propri avversari e di non svolgere appieno i compiti di riforma per cui è nato. Deputato del Pd