Corriere 19.6.15
Se la Francia difende i diritti solo quando le conviene
di Massimo Nava
C’è un’idea di Francia e c’è la Francia di oggi. La prima è quella che amiamo, che accompagna la storia dei diritti dell’uomo e scalda i cuori quando popolo e intellettuali si mobilitano per una bella causa. Le navi in soccorso dei boat people vietnamiti, SoS Racisme, Médecins sans Frontiéres, Je suis Charlie: quante bandiere sventolate alla solidarietà, al dovere di accoglienza, all’universalità dei diritti, all’unità dei cittadini di ogni colore. La seconda è una società chiusa e rancorosa, in cui l’agenda della politica è dettata dalla paura del Front National e da forme di razzismo e populismo che s’insinuano nella sensibilità collettiva.
La Francia di oggi è il Paese che le «barricate» le alza a Ventimiglia per fermare profughi, molti vittime di una guerra — in Libia — che la Francia ha scatenato in nome della libertà, come invocava il suo intellettuale più famoso, Bernard-Henri Lévy.
È il Paese che direbbe ancora no alla Costituzione europea, che fa sgomberare accampamenti di clandestini nelle piazze di Parigi e che più di altri soffre della sindrome da «invasione». È il Paese che sconta l’ipocrisia delle belle parole con la realtà delle sue periferie.
Beninteso, la Francia ha forti ragioni per pretendere rispetto dei trattati e considerare un livello di flussi migratori e di problematiche più importanti e più gravi di quanto ne sopporti l’Italia. Peraltro, da molto più tempo, essendo diversa la storia dell’immigrazione postcoloniale. Contro le ragioni di Parigi, la «ritorsione» dei visti temporanei non è la via migliore per costruire soluzioni condivise.
Ma la Francia è stata spesso capace di andare oltre ogni considerazione d’interesse nazionale, di opportunità, di dati statistici. Un Paese capace di mobilitarsi e assumere posizioni coraggiose se sono in gioco diritti fondamentali. Una certa idea di Francia, appunto. Quella che vorremmo riscoprire a Ventimiglia.