Corriere 17.6.15
La corsa all’egoismo che divide l’Europa
Gli esodi di massa stanno mettendo in difficoltà la Ue
di Franco Venturini
Dopo aver inghiottito un numero apocalittico di uomini, donne e bambini, il Mediterraneo sta inghiottendo l’Europa. Non altrimenti possono essere interpretate le manovre in corso nella Ue che rischiano di trovare i primi riscontri già oggi nella riunione dei ministri degli Interni, per poi trasformarsi in un globale compromesso al ribasso in sede di Consiglio europeo il 25 e 26 giugno. L’Italia fa e farà benissimo ad alzare la voce, a ricordare per quanto tempo e con quali costi siamo stati lasciati soli davanti al fenomeno migratorio proveniente in massima parte dalla Libia. Ma se anche i progetti della Commissione di Bruxelles ottenessero qualche soddisfazione, se anche quarantamila migranti candidati all’asilo fossero trasferiti da Italia e Grecia nel resto dell’Europa, noi avremmo comunque l’onere di restare in prima linea e l’Europa confermerebbe, dietro la retorica comunitaria, quelle che sono in realtà pulsioni disgregative senza precedenti dal tempo dei Trattati fondanti.
Una realtà essenziale va riconosciuta anche se le strumentalizzazioni di politica interna hanno interesse a negarla: questa che oggi ci prende d’assalto, come tutte le migrazioni di massa, non è destinata a finire sino a quando ne sussisteranno i motivi (guerre nei Paesi d’origine, ma anche calamite del benessere nei Paesi di approdo). Non c’entra il governo del momento, c’entrano semmai quelli, e sono tanti e di diversa nazionalità, che hanno creato le condizioni del flusso. Poi andrebbero mantenute le proporzioni: per dirne una, quattro milioni di profughi siriani sono in Turchia, Libano e Giordania. Infine, andrebbero evitate le foglie di fico destinate a nascondere quel che non è realizzabile su scala efficace: il rimpatrio dei migranti economici, la verifica dei richiedenti asilo addirittura in Libia, come se tutti ignorassero quel che accade in Libia, e via speculando. Certo, gli accordi possibili vanno conclusi e gli aiuti conseguenti vanno concessi, ma questa politica viene attuata a Bruxelles già da anni e non ha mai seriamente alleggerito le pressioni migratorie. Quanto alle opzioni militari, in attesa della sospirata risoluzione dell’Onu conviene limitare gli annunci e accontentarci di quel che già avviene: la discreta distruzione delle imbarcazioni dei clandestini dopo il loro salvataggio in mare ad opera delle navi multinazionali (ma in maggioranza italiane) dell’operazione Triton.
Ebbene, come reagisce l’Europa alla sfida che abbiamo appena sintetizzato? La parola «quote» fa inorridire la Francia, ma anche parecchi altri. Se sono «obbligatorie», poi, scoppia una mezza rivolta da parte di ben 12 Paesi europei, l’intero blocco dell’Est, i baltici, ma anche la Spagna. Tutto deve essere fatto su base «volontaria», in modo da poter dosare l’impegno a seconda del momento politico e degli umori prevalenti. Del resto, la Polonia che vuole essere un «grande» europeo fa come gli altri e ricorda le elezioni di ottobre. La Francia ha a che fare con la signora Le Pen, non bisogna chiederle troppo, nemmeno a Ventimiglia. Britannici, irlandesi e danesi non votano, hanno le loro eccezioni. I tedeschi fanno l’elastico, ma d’accordo con Parigi e Madrid ritengono che vadano modificati i criteri per definire le quote (pardon) per Paese, per esempio tenendo maggior conto della disoccupazione (e così la Spagna di migranti in più ne prenderebbe pochini) o dei migranti già ospitati (e allora Germania e Francia sarebbero quasi a posto). Insomma, tagliate di qua, addolcite di là, smussate dappertutto, e qualcosa nascerà. Forse con un rinvio a dopo il 26 giugno, non si sa mai.
È questa l’Europa che parla di ulteriore integrazione dell’eurozona? Sono queste le lacrime che gli europei hanno versato davanti alle stragi nel Mediterraneo? Meglio prendere atto della realtà, e la realtà è molto semplice. Le ambizioni europee, anche nei rari casi in cui si manifestano (la Commissione ci aveva provato), sono ormai in rotta di collisione con la democrazia, cioè con le elezioni che ne sono la base. L’ascesa dei partiti populisti, ma meglio sarebbe chiamarli speculatori, orienta le scelte dai governi e alimenta un circolo vizioso tra proteste sociali e mancanze di leadership che può portare soltanto alla disgregazione. Per reagire c’è ancora tempo, poco. La nostra speranza sopravviverà fino a alla sua fine. Ma nulla, nella complessità del momento, sembra incoraggiante. In Libia continuiamo (tutti) a non sapere cosa fare. Comunque finisca, il braccio di ferro con la Grecia ha già rivelato montagne di errori (reciproci) e non resterà senza conseguenze. Il Brexit probabilmente non avrà luogo grazie al pragmatismo dei britannici, perché tedeschi e francesi penseranno alle loro elezioni nel medesimo 2017. La crisi Ucraina, cioè la Russia, spaccano in due o in tre l’Europa malgrado le sofferte votazioni unanimi, e a fare i veri giochi è l’America strettamente legata alla Polonia e alle Repubbliche Baltiche (che hanno almeno una lunga storia di patimenti da far valere) anche se questo può significare, al di là dei torti degli uni e degli altri, un ritorno di guerra fredda sul Continente.
L’Europa perde terreno su tutti i fronti. Ma a farle rischiare la morte per cecità nazionalistica sono più di tutti loro, i diseredati che bussano alla sua porta e non sanno di innescare una umiliante corsa all’egoismo.