mercoledì 17 giugno 2015

Corriere 17.6.15
Le assurde richieste ad Atene di un’Unione che sa dire solo «no»
di Giulio Tremonti


Caro direttore, fare un discorso sullo «stato dell’Unione» non è facile e non è allegro. Oggi l’Europa ci si presenta infatti come l’«Angelus novus» di Klee, figura che avanza con la testa rivolta all’indietro, padrona del suo passato ma non del suo futuro, l’«antico regime» di se stessa. La sua residua vitalità è espressa ormai solo nella continua produzione di regole «europee»: ancora nel 2014 la Gazzetta Ufficiale europea si è «normalmente» sviluppata per 11.099 pagine, estese su 692 metri quadrati. E dunque tutto, tranne l’essenziale. Dalla Grecia alle migrazioni: presentandosi, l’Europa, come un non luogo, dove il «no» regna. E per la verità non solo ora.
E già nel 2002, ma poi ancora nel 2010, l’Europa ha bloccato sul nascere la proposta (italiana e della Santa Sede) della «de-tax»: destinare ai Paesi poveri dell’Africa una piccola quota dell’Iva sugli acquisti fatti dai consumatori europei in negozi convenzionati, questo nella preveggente logica dell’aiutarli a casa loro, dove pur poco vale molto.
Ma non era così, al principio della storia: in altri tempi, con altri valori, con altre idee, con altri uomini.
Atene, 28 aprile 1955. La conferenza tenuta da Albert Camus sul tema: «Il futuro dell’Europa». Qui si concorda sul fatto che le caratteristiche strutturali della civiltà europea sono due: la «dignità» della persona; lo «spirito critico».
A quell’altezza di tempo (nel 1955, ancora davanti al blocco comunista) si discuteva con preoccupazione sulla «dignità» della persona. Non si dubitava invece dello «spirito critico», della ragione cartesiana ed illuminista, agente e motore di progresso continuo dell’Europa. Oggi, più di mezzo secolo dopo, possiamo avere dubbi sull’opposto: non sul riconoscimento della dignità della persona, ma piuttosto sulla forza della ragione europea.
Perché tutto questo? Cosa ci è successo? Non una oscura maledizione, che in forma imperscrutabile si è abbattuta sull’Europa. Non una mano ostile, che ha seminato il sale sui nostri campi. E, allora, cosa?
È stato che in appena un quarto di secolo, un tempo tanto breve da essere compreso nella vita di quasi tutti noi, ci sono stati in Europa o sono venuti sull’Europa quattro fenomeni, ciascuno da solo capace di produrre effetti rivoluzionari; insieme ed in concatenata sequenza la causa di effetti esplosivi: l’allargamento, la globalizzazione, l’euro, la crisi. È forse proprio da questa sequenza, e da questo insieme, che si deve partire, per capire cosa ci è successo, cosa ci succede, cosa ci succederà.
L’allargamento (ormai a 28 Paesi) ha estratto l’Europa dal liquido amniotico del vecchio Mec, il mitico mercato comune europeo; l’ha proiettata dall’economia all’ideologia; ne ha reciso i legami con la tradizione; l’ha immersa in una quasi pagana modernità consumista fatta da diritti senza doveri; ha rotto l’iniziale equilibrio tra pari, creando le basi della superpotenza tedesca.
La globalizzazione. Non è l’Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa, trovandola impreparata.
L’euro: per la prima volta nella storia, appare una moneta dissociata tanto dall’oro, quanto dalla sovranità nazionale. Moneta senza governi, governi senza moneta, non essendo noi gli Stati Uniti d’America, ma gli Stati (ancora) divisi d’Europa.
Infine la crisi, come tale non prevista nei Trattati di unione. Lo verifichiamo nel dramma della Grecia. La Grecia, un luogo ancora oggi centrale nella nostra vita. Una prova? Guardate la banconota che avete in tasca: può essere stata stampata ovunque in Europa, ma su tutte leggerete «euro» scritto in greco!
Il problema non è che la Grecia è entrata in Europa. Il problema è che l’Europa è entrata in Grecia. Per la Grecia la crisi non è infatti venuta dal lato del suo — pur truccato — bilancio pubblico, ma dal lato della finanza privata europea.
A partire dal 2003, in una dimensione di euforia, un enorme flusso di capitali proveniente dalle principali banche europee ha allegramente finanziato Olimpiade, piscine, auto, le più varie illusioni di benessere. Per quasi un decennio l’allegria è stata bilaterale, dal lato dei debitori, ma anche da quello dei creditori che, sui loro crediti, incassavano ricchi interessi attivi. Ad un certo punto, fatalmente, è però venuta la crisi. In base alle leggi dell’economia di mercato, se falliscono i debitori, falliscono anche i creditori. Nel caso della Grecia, non è stato così. È stato l’opposto!
È così che gli «aiuti» alla Grecia hanno in realtà aiutato tutti, e soprattutto le banche tedesche e francesi creditrici della Grecia… tutti, insomma, tranne che i Greci! È anche per questo che, con le cure europee e dopo le cure europee, il debito pubblico greco è salito, il Prodotto interno lordo greco è sceso.
Dopo tutto questo oggi è assurdo quanto compulsivamente l’Europa ancora chiede alla Grecia: più privatizzazioni; più liberalizzazioni, eccetera. Guardando le presenti condizioni della Grecia, questi interventi non li chiederebbe neppure Margaret Thatcher! Diciamo, più romanticamente, che Lord Byron non sarebbe stato e non starebbe oggi dalla parte della Troika!
La Grecia, parte di una regione d’Europa dove da sempre si produce più storia di quella che «in loco» si consuma, e perciò la si esporta! Ciò che è successo in Grecia, ciò che in questi anni le è stato fatto, prima in termini di illusione, poi di recessione, in realtà non tocca solo la Grecia, riguarda direttamente e pericolosamente anche il resto dell’Europa. Riguarda anche noi.
La storia è sempre una buona maestra, sono gli uomini che a volte, prima di ravvedersi — e si spera che lo facciano nelle prossime ore — si rivelano cattivi scolari. L’Europa potrà avere un futuro di civiltà solo se cesserà d’esaurirsi sul calcolo bancario dei tassi di interesse. Avrà davvero un futuro, l’Europa, solo se ritroverà la dimensione storica e l’intensità politica che sono state proprie del suo spirito originario. Senatore della Repubblica