giovedì 18 giugno 2015

Corriere 18.6.15
Un voto per Hong Kong (ma la rivoluzione ha richiuso gli ombrelli)
di Guido Santevecchi


HONG KONG I filocinesi si muovono a gruppi, sventolano bandiere rosse e indossano magliette numerate; sembrano plotoni e quei numeri progressivi tradiscono un’organizzazione governativa. Arrivano davanti alla barriera eretta dalla polizia e urlano contro quelli dell’altra parte, i sostenitori del fronte democratico di Hong Kong, che sono di meno e meno compatti. Partono altri slogan e gesti di sfida. Siamo davanti al palazzo del Legislative Council, l’assemblea parlamentare di Hong Kong dove si sta decidendo sull’introduzione del suffragio universale nell’ex colonia britannica. La fine di una sfida che l’anno scorso ha paralizzato per tre mesi la City, conquistata dai ragazzi della Rivoluzione degli Ombrelli. Il clima è cambiato da allora.
La Dea della Libertà di gesso bianco è sempre in un salone della City University, in ricordo dei ragazzi di Pechino massacrati sulla Tienanmen 26 anni fa. Ma i fiori ai piedi della statua sono secchi. E intorno sono spariti i banchetti affollati dove gli studenti l’autunno scorso raccoglievano adesioni per il movimento e davano lezioni di democrazia. Sembrano stanchi e delusi quegli eroi che da ottobre a dicembre avevano occupato le strade della City sfidando Pechino.
Eppure sono giorni cruciali per lo statuto speciale di semi-democrazia di Hong Kong all’interno della Cina. Tra stasera e domani i 70 parlamentari di Hong Kong voteranno sulla riforma elettorale. Il sì significherebbe che per la prima volta, nel 2017, oltre cinque milioni di abitanti andrebbero alle urne per scegliere il Chief Executive, il capo del governo locale. Suffragio universale, mai visto in Cina. Ma con una clausola-beffa: i candidati, al massimo tre, dovrebbero essere accettati da Pechino, graditi al partito comunista.
Per i democratici è una farsa e per questo lanciarono Occupy Central. La Cina non ha offerto alcuna concessione. E ora i 27 deputati di Hong Kong appartenenti al fronte democratico hanno promesso di votare contro quello che chiamano «lo pseudo suffragio universale». Hanno una minoranza di blocco: con i loro no compatti salterebbe la riforma scritta dal partito comunista, ma anche il suffragio universale. Il Chief Executive sarebbe ancora indicato da un gruppo di notabili legati al governo cinese. Così Pechino vince anche se la sua legge non passa.
Non si vede passione nelle strade di Hong Kong. Le trame si fanno in segreto. Compreso un piano per far esplodere ordigni artigianali che la polizia dice di aver sventato con dieci arresti. E siccome ai filocinesi basterebbero solo quattro voti in più, circolano voci su tentativi di comprare questi deputati democratici, di ottenerne almeno l’astensione.
Una disfatta annunciata per la Rivoluzione degli Ombrelli? Joseph Cheng, professore universitario e consigliere di Occupy Central, è un po’ sconfortato. Spiega al Corriere : «A Pechino hanno definito la situazione di qui “uno scontro con nemici del popolo”, non un confronto tra la gente, usano questa espressione nemici del popolo come ai tempi di Mao, vogliono schiacciare gli oppositori». Il professore ammette che nel movimento c’è «un senso di frustrazione e di stanchezza, i giovani sono arrabbiati e delusi». Forse i democratici, quando avevano paralizzato la città, avrebbero dovuto accettare un compromesso? «Amico mio, non c’è stata alcuna consultazione, le autorità centrali ci hanno ignorato, anche se rappresentiamo il 40 per cento della popolazione di Hong Kong. E comunque, cedendo, avremmo perso la nostra dignità, il nostro orgoglio e anche la base elettorale».
I democratici sembrano in un vicolo cieco. C’è il rischio che senza suffragio universale, anche se sotto tutela cinese, Hong Kong perda l’occasione per essere comunque la prima città della Cina a poter votare un candidato. E per ottenere i voti, anche gli uomini selezionati a Pechino avrebbero dovuto cercare consensi tra la gente democratica di Hong Kong. Intanto, come dice Cheng, «la Cina sta stringendo il cappio intorno alla città, la stampa è sempre più controllata, la polizia è diventata di parte, non è più amichevole. Certo non volevamo questo, ma ormai non ci possiamo arrendere».
Il professore si consola spiegando che la situazione bloccata di Hong Kong segna anche il fallimento della formula «Un Paese due Sistemi», il modello che il governo cinese continua a proporre a Taiwan per riportare l’isola ribelle nella Repubblica popolare. Normalizzando con inflessibilità Hong Kong, ragionano i democratici, la Cina rinuncia alla possibilità di riprendersi anche Taiwan.
Hong Kong appare spaccata a metà: i filocinesi chiedono solo stabilità e business, gli studenti sono più defilati. I giovani eroi sono stanchi, hanno chiuso i loro ombrelli. Davanti al palazzo del Legislative Council è rimasto per tutti questi mesi solo un nucleo di irriducibili democratici accampati in un paio di dozzine di tende. È quasi un villaggio, popolato da gente anziana: con il vecchio signor Wong e la moglie, due settantenni, che sotto un tendone hanno aperto una biblioteca gratuita fornita di romanzi, racconti per ragazzi, testi di algebra; basta entrare, sedersi e leggere, lo scopo è di stare insieme.
E poi, accanto, sul marciapiedi, c’è una specie di orto rivoluzionario composto da piante in vaso. Una occupante le sta annaffiando davanti a noi. Finché la signora non le lascerà appassire, il sogno rimarrà vivo.