giovedì 18 giugno 2015

Corriere 18.6.15
Processo a Sant’Ignazio
Era un uomo di mondo, poi prese a modello la vita di Cristo, ma fu a lungo sospettato dall’Inquisizione
Il fondatore dei gesuiti dettò il racconto dei fatti essenziali della sua vita
di Pietro cItati


F ino a ventisei anni, Sant’Ignazio — così egli raccontò di se stesso — fu un uomo di mondo, assorbito dalla vanità delle cose. Amava esercitarsi nell’uso delle armi, e corteggiare le dame. Venne ferito in una fortezza assediata dai francesi, e due volte operato alle gambe: ma non gli sfuggì un lamento, e non diede altro segno di dolore che stringere forte i pugni. Rischiò di morire. Si confessò, ricevette i sacramenti e la vigilia di san Pietro e Paolo i medici dichiararono che, se non migliorava entro mezzanotte, lo si poteva dare per morto. Proprio quella notte cominciò a riprendersi.
Durante la lunga e lenta convalescenza, desiderò di leggere qualcuno di quei libri mondani e frivoli, «comunemente chiamati romanzi cavallereschi», che egli amava appassionatamente. Ma, nella casa dove era curato, non ce ne era nessuno, e in cambio gli diedero una Vita di Cristo e delle vite di santi. Percorrendo più volte quelle pagine, restava preso da ciò che vi si narrava. Fra le molte vanità che gli si presentavano alla mente, un pensiero lo dominava: ne restava assorbito, indugiando come trasognato per tre o quattro ore: andava escogitando cosa potesse fare in servizio di una certa dama; pensava alle frasi cortesi, le parole che le avrebbe rivolto; sognava i fatti d’armi che avrebbe compiuto al suo servizio. Dunque la Vita di Cristo non agì subito su di lui. Ma a questi pensieri ne seguivano altri. Si soffermava a pensare e a riflettere tra sé: «E se anche io facessi quello che hanno fatto san Francesco e san Domenico?». Ripeteva fra sé: «San Domenico ha fatto questo, devo farlo anch’io, san Francesco ha fatto questo, devo farlo anch’io».
Pensando alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, esse lo lasciavano, si sentiva vuoto e deluso. Invece i pensieri santi non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli lasciati, restava soddisfatto e pieno di gioia. Poi comprese che i pensieri che lo lasciavano triste venivano dal demonio; e i pensieri che lo lasciavano lieto venivano da Dio. La differenza tra i due tipi di pensieri stava nell’effetto vitale: Dio era dalla parte della vita, e dava letizia, mentre il demonio era dalla parte della morte, e causava tristezza.
Progettò di ritirarsi nella Certosa di Siviglia senza dire chi era, e lì di nutrirsi soltanto di erbe. Poi l’ascesi solitaria non gli bastò: voleva muoversi, partire, mendicare, vagabondo, esercitando in movimento quell’odio attivo che provava verso se stesso. In viaggio, si flagellava ogni notte. Non decideva egli stesso quale strada percorrere: lasciava che la sua mula andasse per la sua strada, abbandonando al caso la forza di decidere. Una mattina, vide della carne imbandita: non provava alcun desiderio di mangiarla; ma sentì che doveva mangiare carne, e che Dio lo voleva. Così alternò, nella sua vita, l’inclinazione ascetica e quella non ascetica, obbedendo in ogni caso al diverso comandamento di Dio.
Durante i viaggi d’inverno, portava indosso un paio di calzoni di tela grossolana che gli arrivava al ginocchio, lasciando scoperte le gambe, un paio di scarpe (spesso senza suola), un giubbone di tela nera con larghi strappi sulle spalle, e una mantella corta e sdrucita. In tutto quello che faceva, c’era un aspetto di sfida: partì per la Francia, sebbene sapesse che là perseguitavano gli spagnoli; e cercava di vivere in una continua condizione di sofferenza. La cosa difficile era scoprire la volontà del Signore, e trovare la strada giusta tra tutte quelle offerte dal mondo. Così decise di compiere a piedi, scalzo, senza cibo, le ventotto leghe tra Parigi e Rouen. Ma temeva, facendo così, di tentare il Signore: quando decise di partire, cadde in preda di un timore così grande che gli pareva di non riuscire a indossare i vestiti. Uscì di casa, prima che fosse giorno fatto, sempre pieno di dubbi: finché, quando fu ad Argenteuil, quello stato d’animo a poco a poco svanì e gli subentrò una tale consolazione e un tale slancio spirituale accompagnato da tanta gioia che cominciò a gridare per i campi e a parlare con Dio.
Fin dall’inizio della sua vita consacrata al Signore, i giorni di pellegrinaggio vennero confortati e protetti da visioni: Dio, la Trinità, Gesù, Maria, i Santi. Gli accadeva spesso, in pieno giorno, di scorgere nell’aria qualcosa che lo riempiva di consolazione perché era bellissima e piena di fascino. Era dominato da una passione estatica: quella della Trinità: era come se vedesse la santissima Trinità sotto figura di tre tasti d’organo, con un profluvio di lacrime e di singhiozzi incontenibili. Oppure vedeva la Creazione: gli pareva di scorgere una cosa bianca dalla quale uscivano raggi di luce, ed era Dio che irradiava luce. Ma aggiungeva che la conoscenza spirituale che Dio risvegliava in lui, era ancora vaga e imprecisa.
Un’altra visione lo colse durante la preghiera: quella dell’umanità di Cristo: un corpo bianco né grande né piccolo, ma senza alcuna distinzione di membra; una totalità indivisa. Le visioni venivano operate dagli occhi interiori: Ignazio sottolineava sempre l’estrema forza ed intensità con cui il Signore gli si rivelava. Oppure una volta gli si aprirono gli occhi dell’intelletto: non ebbe una visione, ma conobbe e comprese con l’intelligenza molti principi della vita spirituale. Tutto era illuminato di luce. «Ricevette una grande luce nell’intelletto: il rimanere con l’intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli parve di essere un altro uomo e che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima». Non gli sembrava di aver imparato tanto in tutto il corso della sua vita, fino a quel momento.
Qualche volta, scopriva con angoscia e terrore che un serpente con molte macchie, che splendevano come occhi e lo guardavano fissamente, era il demonio. La cosa singolare era che quanto più spesso lo vedeva, tanto più cresceva la consolazione, e quando invece scompariva, ne provava dispiacere, come se il demonio diventasse improvvisamente un principio di gioia.
Quando pensava ai peccati compiuti, non tentava alcuna analisi psicologica, non descriveva i peccati, né tentava di perdonarli: apriva il suo animo infinitamente a Dio e sapeva che questa apertura valeva molto di più di qualsiasi considerazione psicologica e di qualsiasi pentimento. Come gli suggerì un sacerdote, egli «non accusava più nessuna colpa del passato»: non «confessava più alcuna colpa passata». Mirabilmente sottratto a qualsiasi controllo o condanna razionale, il suo animo venne illuminato da Dio che cancellò in lui ogni macchia o minima ombra. A partire da quel giorno, egli rimase libero da scrupoli, convinto che era stato il Signore a liberarlo per sua misericordia.
Nell’estate del 1553, cedendo alle richieste dei suoi confratelli più intimi, Ignazio decise di dettare a Luis Gonçalves da Câmara il racconto dei fatti essenziali della sua vita, che potevano nutrire ed ispirare tutti i fedeli. Così nacque l’ Autobiografia , spesso conosciuta con il titolo più suggestivo di Racconto del pellegrino (Utet, traduzione di Mario Gioia, pp. 128, e 5): un libro chiaro, luminoso, una sintassi cristallina: un libro di straordinaria semplicità, moderazione e discrezione dove il tono basso ed umile diventava la strada per portare alla luce la sublimità dello spirito. Non ricordava in nulla o in poco, la temperie dell’ordine che egli fondò in quel tempo: spesso ci viene alla mente la liquidità felice degli scritti di san Francesco.
Come appare nell’ Autobiografia , Ignazio era l’uomo della natura, mentre nella giovinezza aveva coltivato i più squisiti artifici. Meglio sarebbe dire che un artificio soprannaturale aveva cancellato in lui ogni piccolo artificio umano. Ma era anche l’uomo della contraddizione: a volte si sentiva così arido che non trovava alcun gusto nella preghiera vocale, nell’ascoltare la messa, in ogni altra forma di meditazione: a volte, invece, sentiva scomparire dal suo animo ogni tristezza e desolazione, come se qualcuno gli togliesse una pesante cappa dalle spalle. Il rapporto con Dio viveva sotto il segno della discrezione: per quanto si aprisse a quella luce soprannaturale, moderava il tono, quietava la voce, e sentiva che la luce poteva giungergli soltanto di scorcio. Ogni discorso razionale era rifiutato. Se studiava i grandi temi della mente, camminando attraverso i libri della fede, questi sembravano soltanto ostacoli che la luce della rivelazione abbatteva e aboliva.
Ignazio era perseguitato dall’Inquisizione. Veniva sottoposto continuamente a processi, dai quali usciva assolto: non veniva trovato nulla di riprovevole nelle sue idee e nel suo modo di vivere; ma usciva da un carcere soltanto per entrare in un altro carcere. La chiesa spagnola diffidava di tutte le persone che possedevano doni e carismi straordinari: accusava Ignazio di parlare di cose, come il peccato veniale o mortale, di cui non aveva sufficienti istruzioni; e avvolgeva Ignazio di un estremo sospetto.
Ignazio si inchinò davanti a tutti gli ordini della Chiesa, per quanto gli sembrassero ingiusti e, sopratutto, fuori luogo. Qualche volta non li capiva: «Non vedo proprio — diceva — a cosa serva questa Inquisizione». In primo luogo dichiarò sempre la propria incompetenza teologica e morale. Egli era lo straniero: colui che non sapeva. La condanna al carcere gli era indifferente. «Quanto a me, vi assicuro che non vi sono a Salamanca tanti ceppi e catene che io non ne desideri di più per amore di Dio». Quando un amico gli propose di farlo uscire di prigione, egli rifiutò: «Colui per amore del quale sono finito qui dentro, me ne farà uscire, se questo gli piacerà».
L’ultima parola dell’ Autobiografia di Ignazio coincide con la prima: l’imitazione di Cristo. Immaginò che il maestro fosse Cristo: a un condiscepolo dava il nome di san Pietro, a un altro di san Giovanni, e così con il nome di tutti gli apostoli. «Quando il maestro — diceva — mi darà un comando, penserò che Cristo me lo domanda e se un altro mi domanderà qualcosa, penserò che è san Pietro o san Paolo a domandarmelo».