Corriere 17.6.15
Waterloo non fu soltanto sfortuna
Errori e stanchezza di Napoleone
Sulla battaglia di Waterloo, della quale ricorre domani il duecentesimo anniversario, Napoleone a Sant’Elena non aveva alcun dubbio. Si chiedeva spesso che cosa avesse sbagliato in quella giornata per lui conclusiva. La risposta era sempre la stessa. Di sbagliato, nulla. La conduzione strategica e tattica della battaglia era stata ineccepibile. L’esito catastrofico era stato tutto e soltanto effetto della sfortuna, della cattiva sorte che lo aveva atteso lì.
Si può, umanamente, più che capire. La sua idea di non aver nulla sbagliato quel giorno non era del tutto infondata. A un certo punto la sua vittoria si era nettamente delineata; e, non fossero intervenuti i prussiani di Blücher, con il francese Grouchy errante a vuoto a breve distanza, Wellington sarebbe uscito distrutto dallo scontro. Del resto, le perdite francesi non furono in sostanza maggiori di quelle britanniche e prussiane, e le forze di Napoleone furono battute e disperse, piegate, ma non annientate. Che, poi, anche un esito opposto della battaglia non avrebbe di molto mutato le cose e non avrebbe affatto significato vincere la guerra, è un altro discorso.
Che nulla vi fosse da osservare sulla conduzione della battaglia, non si può, tuttavia, dire. La guerra in Spagna e Portogallo avrebbe dovuto far valutare meglio a Napoleone la tattica di Wellington nello schierare le sue truppe. Allo stesso modo, avrebbe potuto valutare meglio la differenza nella potenza di fuoco dello schieramento inglese rispetto a quello dello schieramento e dell’attacco in colonna: la magnifica resistenza dei quadrati della Guardia imperiale, a cose ormai decise, lo conferma. Ed era poi necessario spendere tanto tempo nell’attacco alla fattoria della Belle Alliance?
Già: il tempo. La battaglia avrebbe potuto concludersi prima dell’arrivo determinante dei prussiani? È un’ipotesi difficile a farsi per quei giorni di pioggia e di terreno molle. Invece, per alcuni Napoleone, contro il suo solito («in guerra, la perdita di tempo è un male irreparabile», scriveva nel 1806 al fratello Giuseppe), parecchio tempo lo perse prima dello scontro.
Nel libro La Battaglia di Waterloo (Castelvecchi), un napoleonista convinto come Henry Lachouque, militare di professione, nota che il 15 giugno l’imperatore perse cinque ore, dando modo di fuggire ai prussiani; e che «nella notte fra il 16 e il 17» perse quindici ore, lasciando fuggire l’armata battuta di Blücher, a Wavre, per ritrovarsela poi di fronte a Waterloo. Anche il 17, alla vigilia, «si attarda a Fleurus, visita in vettura il campo di battaglia, passeggia a cavallo a Ligny e a Brye, consola i feriti, intrattiene i suoi generali sulla politica giacobina, liberale, gioca all’imperatore secondo l’immagine di Épinal». E lo stesso autore nota pure che, sempre contro i suoi stessi principii, non fu lui a scegliere il campo di battaglia, e che non operò il massimo concentramento possibile delle sue forze.
Certo, sono critiche del giorno dopo, ma inficiano la sicurezza professata a Sant’Elena di non aver nulla sbagliato, e confermano, insieme, il giudizio di chi lo vide, nei Cento giorni del 1815, diverso dal fulmine di guerra della prima campagna d’Italia o di Austerlitz: appesantito, facile alla stanchezza, e anche un po’ torpido e lento. Era ancora, come riconosceva Wellington, un grande stratega («fa onore alla guerra»). A Sant’Elena, però, «sentivo — diceva pure — la fortuna abbandonarmi. Dentro di me non avevo il presentimento del successo finale. Non osare vuol dire non fare niente al momento opportuno, e non si osa se non si è convinti della buona fortuna».
Decisamente, non la sfortuna, ma il fato bussava alla sua porta in quei giorni del 1815, con il respiro di una storia che stava andando già da un po’ oltre di lui.