mercoledì 17 giugno 2015

La Stampa 17.6.15
Tra Italia e Egitto storytelling al museo
Nel summit bilaterale di Torino, le nuove frontiere dell’archeologia che sposa la scienza e può aiutare a risolvere i problemi ambientali
di Mario Baudino


L’archeologia non è solo musei e siti antichi da scavare o preservare: è anche attenzione agli effetti climatici, ai suoli, all’ambiente, alle tecnologie e in generale ai possibili confronti scientifici. Come ci ricorda il direttore del Museo Egizio, Christian Greco, anche le colture intensive della canna da zucchero in Egitto, che implicano una salinizzazione dei suoli, hanno risvolti sui siti archeologici, perché ad esempio il sale cancella i geroglifici. La nuova archeologia è globale, non nel senso della globalizzazione economica ma della globalità dei saperi. Una riprova è nel workshop italo-egiziano che si è svolto ieri e lunedì tra il Museo Egizio e i caffè storici cittadini, dove si sono confrontati, divisi in sessioni, cinquanta scienziati per Paese.
Scambio di ricercatori
Organizzato dal Cnr col sostegno di Intesa San Paolo, il convegno rappresenta anche il primo appuntamento dopo le convenzioni bilaterali sullo scambio di ricercatori rinnovate al Cairo dal presidente del Cnr, Luigi Nicolais. Va oltre il museo, anche se trova nel museo il suo ambiente ideale. Per la giornata di apertura protagonista è stato l’Egizio, con la presidente Evelina Christillin, i ministri della Ricerca scientifica Stefania Giannini e Sherif Hammad, il sindaco Fassino, il direttore dell’Accademia egiziana a Roma Gihane Zaki, e soprattutto i tre principali musei (uno in fase ancora di divenire) che testimoniano lo stretto legame tra i due Paesi.
Accanto al direttore di quello torinese c’erano Mahmoud el-Halwagy, responsabile dello storico museo del Cairo, e Tarek Sayed Tawfik, che sta costruendo il Gem, il Grand Egyptian Museum, di fronte alle piramidi di Giza. Sarà il più vasto del mondo, e dopo alcuni rinvii la prima apertura è prevista per il 2018. Attesi cinque milioni di visitatori l’anno. «Esporremo almeno settantamila pezzi che non sono mai stati veduti finora, oltre a una serie di reperti legati al faraone Tutankhamon, anch’essi sconosciuti», ci spiega. Ma l’aspetto più significativo dell’impresa sarebbe far sì «che i nostri tre musei lavorino insieme».
I reperti «parlano»
È possibile? La collaborazione va ormai avanti da tempo. Se da una parte El-Halwagy documenta un lungo lavoro col Politecnico di Milano che ha fornito strumenti scientifici per studi «archeometrici», spettroscopie e fluorescenze per far «parlare» i reperti antichi, dall’altra è da tempo al lavoro una missione multidisciplinare del Cnr in Egitto, guidata da Giuseppina Capriotti dell’Istituto per gli Studi del Mediterraneo antico in collaborazione con diverse istituzioni locali. Con risultati importanti: «Nel sito di Tell el-Maskhuta», ci dice, «siamo riusciti a salvare l’unica tomba ramesside - risalente cioè al Nuovo Regno, tra il 1291 e il 1080 a.C. - del Nord del Paese, che versava in una situazione di grave rischio ambientale».
Ma si è anche potuta studiare con nuove tecniche di fototogrammetria e spettroscopia l’antichissima tomba di Harkhuf (XXIII sec. a.C.), le cui iscrizioni documentano le più antiche esplorazioni in Africa. E verificare sempre nella stessa zona i danni provocati da agenti atmosferici e persino dai rumori provenienti dalle città sui complessi monumentali, in particolare le Tombe dei Nobili, scavate nella roccia sulla riva occidentale del Nilo a Qubbet el-Hawa, e in rapido deterioramento.
Sapersi raccontare
Nell’ambito di un progetto dal nome un po’ spaventevole, «Le sette piaghe d’Egitto», si è indagato nella stessa area l’impatto sui beni culturali delle pur rare piogge torrenziali in Alto Egitto e Luxor. Provocano danni considerevoli, non solo ai monumenti, ma anche com’è ovvio alla popolazione. Non è un fenomeno nuovo, anzi è spesso citato nei testi antichi, come spiega Marina Baldi dell’Istituto di biometeorologia, e riguarda una regione più ampia dal mar Mediterraneo al centro del Sahara, fino al Mar Rosso. Capirlo meglio significa proteggere nello stesso tempo i beni archeologici, ma anche quelli di chi abita nella zona, in primo luogo la qualità della vita.
Sull’altro piatto della bilancia c’è la trasformazione dei musei, da luoghi di conservazione a scenari non solo di ricerca ma, per usare un termine caro a Christian Greco, anche di «storytelling». I musei devono sapersi raccontare, e l’Egizio di Torino ha dimostrato di farlo piuttosto bene, mutando pelle in breve tempo: come riconosce - parlando addirittura di un «miracolo», almeno quanto alla durata dei lavori - Tarek Tawfik: lui che sullo storytelling punta molte carte in quello che dovrebbe diventare il super-museo, il più grande del mondo, e va da sé - dati i capitali giapponesi - anche il più internazionale. Non senza qualche spunto torinese.