Corriere 16.6.15
Certezze perdute e illusioni
di Luciano Fontana
I ballottaggi nei Comuni e il risultato nelle sette Regioni che hanno votato quindici giorni fa consegnano un panorama politico nuovo. È accaduto qualcosa che era molto difficile prevedere nei mesi in cui si discuteva in Parlamento di nuova legge elettorale e riforme costituzionali. La sfida al Pd, al suo 40,8 per cento conquistato alle Europee, sembrava impossibile: per l’opposizione di centrodestra e per ogni altra.
Cosa ha fatto cambiare il vento così rapidamente? Perché il centrosinistra ha perso Regioni storiche come la Liguria, ha sofferto in Umbria, è stato sconfitto in Veneto, ha abdicato in città come Venezia, Arezzo ed Enna? Perché, soprattutto, la guida del Paese è tornata improvvisamente «contendibile» da parte di un’opposizione ancora molto frammentata e venata da pulsioni antieuropee e populiste?
Un primo elemento di riflessione riguarda direttamente il Pd, la sua strategia, il suo radicamento nel territorio. Matteo Renzi è un solista determinato, che in pochi mesi ha cambiato l’agenda politica, i programmi e il profilo del partito a livello nazionale. Ne ha fatto qualcosa di completamente diverso rispetto alla «ditta» di Pier Luigi Bersani sconfitta nelle elezioni del 2013. Ma i titolari della «ditta», piegati con qualche difficoltà al centro, dominano ancora a livello locale. Hanno imposto, quasi dappertutto, i loro candidati alle primarie (dove vincono spesso personaggi legati solo ai militanti o collezionisti di interessi e voti), hanno presentato le stesse politiche e gli stessi vecchi volti ripetutamente respinti dagli elettori.
L a vicenda di Casson a Venezia esemplifica perfettamente questa situazione: un candidato della sinistra interna, un ex magistrato a un passo dall’uscita dal Pd, vince le primarie, imposta la campagna elettorale sul tema del Mose e delle inchieste che hanno travolto l’ex sindaco Orsoni. Punta tutto sul passato, senza un messaggio rivolto all’intera città, scegliendo più di escludere che di includere i cittadini che non si riconoscono nella sua parte politica. Con il risultato di non riuscire nemmeno ad attrarre il voto dei grillini, teoricamente i più vicini alla sua impostazione. È bastato uno sfidante con un volto nuovo, capace di infondere entusiasmo nel destino della città, aperto addirittura alle parole d’ordine renziane, per infliggere ai democratici una sconfitta bruciante.
Le primarie (lo ha scritto Antonio Polito sul nostro giornale) selezionano spesso una classe dirigente ostile a un programma riformatore capace di superare gli antichi recinti della sinistra. Gli apparati locali sono dominati dai signori delle tessere, quando non da personaggi coinvolti in inchieste giudiziarie che dimostrano la permeabilità del partito alla corruzione. La conquista di ceti produttivi, liberali e moderati, essenziali per la ridefinizione del profilo del Pd, è ridiventata un’impresa molto difficile. Se Renzi vuole restare, come ha dichiarato, alla guida del Paese fino al 2018 dovrà rapidamente (accanto al varo di misure su questioni cruciali come l’immigrazione e il rilancio dell’economia) porsi la questione di costruire un partito e una classe dirigente all’altezza del compito.
Le difficoltà del Pd non devono però generare illusioni nell’opposizione. Forse la fase dell’irrilevanza è passata, ma la definizione di una proposta politica, di un’alleanza e di una guida competitiva non si vedono ancora all’orizzonte. Le parole d’ordine della Lega possono far crescere il bottino elettorale, facendo leva sulle paure giustificate degli italiani, ma difficilmente costituiscono una piattaforma alternativa di governo. L’affermazione di esponenti nuovi del centrodestra, che riescono a competere per il governo delle città e delle Regioni, è un primo segnale nel deserto degli ultimi anni. Ma sarà tutto inutile se, anche da queste parti, non si aprirà una vera lotta per una leadership fondata sul merito, sui programmi e sull’indicazione di una proposta di governo per il Paese.