sabato 13 giugno 2015

Corriere 13.6.15
I duellanti del nichilismo Dostoevskij contro Tolstoj
La seduzione del nulla come malattia. E con Lev la risposta del cristianesimo
di Claudio Magris


Un celebre saggio di Thomas Mann, dedicato a Dostoevskij, s’intitola Dostoevskij — con misura . Titolo non felice, perché il confronto con un autore e con la sua opera — specialmente se sono grandi, inquietanti e sconvolgenti — non segue una dieta né le dosi prescritte nelle assunzioni di medicinali. Nell’opera di un grande autore — tanto più quanto più si tratta di un grande — ci si tuffa senza cautele e senza remore, senza salvagenti, come in un mare agitato, oppure non ci si tuffa. Ciò non significa abdicare al proprio giudizio e ai propri valori, assoggettarsi idolatricamente alla sua grandezza; si fanno i conti con i grandi creatori affrontandoli a viso aperto e senza timidezza, anche contestandoli, in un dialogo e in un rapporto che, se autentici, sono sempre, in quel momento, un incontro fra pari, fra due persone che, in quella loro relazione — in questo caso nel momento della lettura — sono sempre pari, indipendentemente da ciò che l’uno e l’altro significano, al di fuori di questo loro dialogo, nella storia del mondo. In ogni incontro, in ogni dialogo, il protagonista, come nella Trinità, è lo spirito, ovvero il rapporto fra i due, in quel momento soli faccia a faccia.
Dostoevskij è un autore che sconvolge sin dalle fondamenta le nostre certezze, le nostre difese, il nostro accomodamento col mondo. Se si dovessero indicare una data e un’opera quale nascita della narrativa contemporanea, la scelta più giusta cadrebbe sulle Memorie del sottosuolo : l’uomo del sottosuolo, che Nietzsche identificava col suo superuomo (o oltreuomo, come è stato proposto da Gianni Vattimo) è l’Io scisso, plurimo, riluttante alla corazza della coscienza, che sarà, nelle forme più varie, il protagonista della letteratura occidentale per quasi due secoli e probabilmente lo è ancora. Allo stesso tempo Dostoevskij ha posto, come forse nessun altro scrittore, le domande ultime sul destino dell’uomo, sulla sofferenza e sull’amore; sulla salvezza e sulla perdizione dell’uomo.
Dostoevskij e Nietzsche hanno vissuto a fondo il nichilismo quale verità esistenziale e storica dell’epoca; il primo l’ha considerato una malattia da cui guarire, mentre il secondo l’ha celebrato — o meglio si è forse costretto a celebrarlo — come una liberazione da festeggiare. Il futuro della nostra civiltà, scriveva parecchi anni fa Vittorio Strada, dipenderà anche da quale dei due avrà avuto ragione.
A documentare l’inquietante, inesauribile centralità di Dostoevskij — per quel che riguarda le questioni essenziali della nostra vita, della nostra storia, del nostro destino individuale e politico — è uscito ora un grande saggio di Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi) che affronta con incalzante acutezza e appassionata partecipazione i temi sconvolgenti dell’opera di Dostoevskij, della radicale domanda sul nulla e sul potere, con tutte le sue implicazioni. Un libro col quale bisogna misurarsi a fondo.
Come in Dostoevskij, pure in Tolstoj la letteratura, proprio perché così incredibilmente grande, trascende il pur altissimo valore poetico per toccare le estreme domande sulla vita, le cose ultime in cui si giocano la salvezza o la perdizione dell’umano. Alla vasta, multiforme e variamente approfondita critica sul rapporto, spesso conflittuale, fra i due giganti si è aggiunto un breve, essenziale saggio di Graziano Bianchi, dal taglio discorsivo più che analitico e di una intensa forza sintetica. Dostoevskij legge «Anna Karénina» , dice il titolo del saggio di Bianchi, che fa parte di un’ampia, profonda e insieme scorrevole raccolta di saggi A occhio nudo , dedicati a vari autori, ma soprattutto, pur in altri capitoli della raccolta, ai due Dioscuri russi, in particolare all’autore di Delitto e castigo .
Bianchi non è un critico letterario, bensì un avvocato che ha alle proprie spalle un’attività legale di grande rilievo, sempre accompagnata da una dominante passione per la letteratura, la musica, la problematica religiosa e l’arte in genere, cui negli ultimi anni si è dedicato sempre più. Del resto i legami e le profonde, anche complesse e contraddittorie affinità fra diritto e letteratura attraversano i secoli, in una feconda, talora polemica ma sempre vitale compenetrazione, da Antigone ai notai poeti della scuola siciliana, dal Mercante di Venezia a Heine, a Kleist o a Satta. Bianchi si è occupato di Beethoven, sempre con una competenza e uno scrupolo filologico arricchiti dalla vivacità e dalla libertà del «dilettante» (che spesso falsamente si identifica con superficiale) ossia di chi si occupa per amore di poesia e di arte. Dilettante — parola cara a Goethe — è chi conosce e trasmette il piacere della lettura.
Dostoevskij lettore di Tolstoj. I due titani conoscono, ognuno, l’incommensurabile valore dell’altro. Per Dostoevskij Anna Karénina è opera «perfetta» e «nulla nelle attuali letterature europee può ad essa paragonarsi». Tolstoj, secondo Steiner, nella sua fuga estrema nella morte si sarebbe portato con sé I fratelli Karamàzov .
I rapporti difficili fra i due nascono non tanto — e non certo solo — dall’invidia, meschinità poco intelligente che sembra allineare fra i letterati più che in altre confraternite e che è banale non solo in un genio ma in ogni uomo. Lo scontro avviene — e Bianchi lo illustra con partecipe e appassionata lucidità — fra il cristianesimo pacifista e umanitario senza Cristo di Tolstoj, che Dostoevskij rifiuta, e la centralità del Cristo, e di una fede in un Dio trascendente, per l’autore dei Demoni . Ma lo scontro avviene soprattutto nella visione della Russia, metafisico luogo d’incontro fra Oriente e Occidente, come sottolineava già Merežkovskij, e portatrice di una missione universale e di un nuovo cristianesimo. Dostoevskij, che si pone dalla parte degli umiliati e offesi — per parafrasare il titolo di un altro suo romanzo — rinfaccia a Tolstoj di scrivere una «letteratura del proprietario terriero» e gli rinfaccia pure l’interesse per la gente futile come Vronski e i suoi pari che «non possono parlare altro che di cavalli». Tolstoj, d’altra parte, parla, non certo meno faziosamente, di «tutti questi idioti adolescenti, Raskolnikov ecc., non reali».
Ma Dostoevskij rimprovera a Tolstoj — e in particolare al suo Levin, in Anna Karénina — la mancanza di un «sentimento immediato per l’oppressione degli slavi […] la diserzione […] il distacco dalla grande comune causa russa». Il pacifismo di Levin gli appare un falso umanitarismo, perché insensibile alle sofferenze del popolo russo e dei popoli slavi — che Dostoevskij descrive massacrati, torturati e violentati dai turchi — è contrario a prenderre le armi per difenderli. Il pacifismo tolstojano — all’epoca della guerra russo-turca — appare a Dostoevskij una insensibile resa al Male, un’egoistica divinizzazione dell’Io.
L’universalità di Dostoevskij, che ha scandagliato come forse nessun altro gli abissi della mente e del cuore umano, s’intreccia non solo a una umanissima partecipazione alle sofferenze del proprio popolo, ma anche alla visione di una missione universale del popolo russo che, per quanto grandiosa, non è più accettabile delle missioni privilegiate e speciali rivendicate da qualsiasi altro popolo, che tanto irritavano Croce.
Il saggio di Bianchi non è un contributo alla slavistica, ma un appassionato invito, oggi più attuale e necessario che mai, a rileggere i grandissimi per trovare o rinsaldare grazie ad essi la nostra verità. Non si sceglie fra Tolstoj e Dostoevskij, né fra Dante e Shakespeare o fra Omero e Cervantes; anche nella grandissima letteratura, come nella casa del Padre, ci sono molte dimore. Un mio compagno di scuola alle medie credeva che Dostoevskij fosse il nome in russo di Tolstoj...