giovedì 11 giugno 2015

Corriere 11.6.15
L’acrobazia del leader tra distinguo e difesa dei Dem
di Massimo Franco


Lo scontro che si è consumato ieri sera alla commissione Antimafia non promette niente di buono. Vedere il Pd all’attacco della presidente per la questione della lista dei candidati «impresentabili», mentre il Movimento 5 Stelle difende Rosy Bindi, che è pure del Pd, dà un senso di vertigine. Fa capire a che punto i contraccolpi elettorali delle Regionali condizionino l’azione del partito; e quanto, dietro la narrativa ufficiale della vittoria, rimanga un’inquietudine profonda.
Probabilmente, se non fossero aperti il caso del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e l’inchiesta su Mafia Capitale che fa tremare la giunta di Roma, il problema non si porrebbe. Comunque, non avrebbe i contorni incattiviti che stanno emergendo in queste ore. Proprio per questo, però, la posizione del Pd e di Palazzo Chigi appare più complicata. Il movimento di Beppe Grillo tende a usare spregiudicatamente la Bindi. Quasi se ne appropria come icona virtuosa.
Eppure, il segretario-premier non cambia strategia: non vuole e forse non può. Di fronte all’attacco frontale e spesso strumentale che arriva dalle opposizioni, l’unica possibilità è una resistenza a oltranza. Significa difendere la giunta Marino; e l’elezione di un De Luca che prende tempo, eludendo e contestando la legge Severino: quella che lo sospende dalla carica. Matteo Renzi vuole la tolleranza zero nei confronti dei corrotti. Chiede che «l’opera di pulizia sia velocizzata e condotta nel modo più duro». Ma la doppia zavorra di Roma e di De Luca lo espone al martellamento del M5S.
La richiesta di dimissioni sia per Marino che per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, viene rilanciata quotidianamente. Matteo Orfini, presidente del Pd, è costretto a ripetere che l’ipotesi «non è mai esistita». Ma i provvedimenti giudiziari che colpiscono due esponenti del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano evocano l’immagine di una intera maggioranza accerchiata. Lo conferma il secondo scivolone parlamentare in due giorni del governo al Senato, stavolta in aula. È «il Vietnam», la guerriglia senza fine sulla quale ironizzano i berlusconiani, sognando di mettere in crisi Renzi.
Si tratta di una brutta china, dalla quale il premier sa di potere in qualche modo risalire soltanto scindendo nettamente le proprie responsabilità da quelle della nomenklatura del Pd infiltrata dal malaffare. E soprattutto ottenendo risultati positivi in materia economica. «Il Jobs act è la dimostrazione che se si fanno le cose il Paese riparte. Lei avrebbe mai scommesso in 270 mila posti di lavoro in quattro mesi?», ha replicato ieri a chi gli chiedeva delle difficoltà dell’esecutivo. Eppure, avrà bisogno di altri risultati, anche più consistenti, per arginare un’onda antisistema che monta non solo per colpa degli scandali ma delle contraddizioni del Pd.