venerdì 8 maggio 2015

Repubblica 8.5.15
La svolta cinese il potere ai robot nasce la fabbrica senza operai
La potenza simbolo dell’impiego di massa lancia la sfida dell’innovazione. Per tagliare posti di lavoro e fare business
di Giampaolo Visetti


PECHINO L’ANNUNCIO ha toni epocali: la Cina sta ultimando la prima fabbrica al mondo «operaio-zero». La potenza-simbolo del lavoro di massa, con stabilimenti da un milione di tute blu, inaugura nel Guangdong una catena di montaggio per soli robot. Il balzo nel futuro lo compie lo stabilimento di Dongguan della «Shenzhen Everwin Precision Technology Company », lungo il delta del fiume delle Perle, che si appresta a licenziare in blocco 1600 dipendenti su 1800. Il nuovo esercito dei robot cinesi sostituirà il 90% di quello storico degli operai: si salveranno, per ora, circa 200 tra programmatori, addetti ai software e manager. Sulla prima linea della produzione le macchine prenderanno totalmente il posto delle persone.
Chen Qixing, presidente della società, ha annunciato di attendersi un aumento di valore annuo pari a 322 milioni di dollari. La sfida della Cina all’innovazione è impressionante: in settembre 505 fabbriche di Dongguan coinvolte nella robotizzazione hanno investito poco meno di mezzo miliardo di euro. Obbiettivo: tagliare 30mila posti di lavoro. Il governo regionale, nei prossimi tre anni, è deciso però a spendere 150 miliardi di euro per sostituire gli operai con i robot. Fondi pubblici andranno alle aziende che li produrranno e li installeranno. Guangzhou, capoluogo del Guangdong, entro il 2020 punta a guadagnare dalla vendita di robot oltre 10 miliardi di euro, automatizzando l’80% della produzione manifatturiera.
Saranno gli stessi robot ad assemblare i propri simili, generandoli in base alle esigenze del mercato. Una rivoluzione: i capi del personale non selezioneranno più lavoratori, ma valuteranno la domanda globale di merce acquistando i robot adatti a confezionarla. Nelle prossime settimane la «Everwin Precision» farà debuttare i primi mille robot e i vertici aziendali hanno assicurato che, oltre ad abbattere i costi, la conversione «migliorerà la qualità dei prodotti». L’esempio sarà seguito dai più importanti distretti industriali cinesi della fascia costiera e del Sud, noti come la «fabbrica del mondo».
Il tramonto dell’era operaia, dopo quella agricola, per la Cina è una necessità. Il «miracolo dei migranti» è finito e con l’estinzione dei 300 milioni di contadini deportati nelle metropoli industriali, unita al boom dell’invecchiamento, la seconda economia mondiale smarrisce l’ineguagliabile competitività. Nel Guangdong mancano oggi tra 600 e 800mila operai, 100mila solo a Dongguan: il gap tra domanda e offerta di lavoro fa esplodere salari e rivendicazioni sindacali. Le multinazionali ri-delocalizzano, Pechino sente sul collo il fiato del Sudest asiatico e per sostenere i consumi interni accelera la sostituzione delle vecchie masse operaie con quelle di giovani colletti bianchi. La sfida dei robot è però lanciata a Giappone, Corea del Sud, Usa e Ue: investe tecnologia e innovazione, ma travolge il mondo del lavoro e le storiche lotte per i diritti degli operai. E a termine è anche il destino di manager e impiegati. La Cina annuncia che presto pure decisioni strategiche e gestione toccheranno ai computer: lavoro no stop, assenze zero, fine di bonus e stipendi d’oro. Il robot è ufficialmente al potere: non resta che l’incubo del black-out.