lunedì 25 maggio 2015

Repubblica 25.5.15
Liste, dove è finito il rinnovamento?
di Guido Crainz


IL PIENO sostegno alla candidatura di Vincenzo De Luca sembra annunciare il declino di quel rinnovamento della politica di cui Matteo Renzi si era fatto alfiere, perno decisivo della sua affermazione alle primarie e alle europee. Rischia di alimentare ulteriori delusioni e pulsioni antipolitiche, e di lasciare involontariamente il campo a quello svuotamento della politica, se non peggio, che emerge da molte liste regionali.
Aveva colpito sin da subito l’apatia con cui Renzi aveva accettato liste e candidati impresentabili, e l’imbarazzo con cui aveva affrontato l’argomento. E poi, nell’intervista a Repubblica Tv, il suo “chiamarsi fuori” rispetto ad essi («non li voterei neanche se costretto ») quasi fosse un semplice elettore. Aveva colpito ancor di più la vaghezza con cui aveva dichiarato «sostanzialmente superabile» il contrasto fra la legge Severino e la candidatura del condannato De Luca. Una nuova legge ad personam? O l’ escamotage di un “sostituto” alla guida della Campania? Pessime soluzioni, in entrambi i casi. Sembrano evaporate le considerazioni pur fatte in passato da Renzi sulla “opportunità politica” che dovrebbe guidare ogni scelta, anche in assenza di reati definitivamente accertati: considerazioni che avrebbero dovuto diventare semmai più stringenti di fronte alla sempre più colossale (e non sempre immotivata) sfiducia nella politica.
Eppure proprio da qui, dalla necessità di ridare fiducia ai cittadini era nata la salutare forza di Matteo Renzi, in quel naufragio della “seconda Repubblica” che l’esplodere dell’astensionismo e il nullismo urlato di Beppe Grillo erano venuti a sancire. Aveva colpito a suo tempo l’insensibilità con cui Pier Luigi Bersani aveva minimizzato entrambi questi elementi al loro primo irrompere, nelle elezioni siciliane del 2012: purtroppo Renzi è sembrato riproporla dopo le elezioni in Emilia-Romagna e in seguito. Casi particolari, si è detto: eppure gli ultimi casi particolari (il voto a Trento, Bolzano ed Aosta) hanno segnalato che il vento delle elezioni europee si è affievolito. Si è indebolita la capacità del Pd di Renzi di non limitarsi a “sorpassi in retromarcia” (di non limitarsi cioè a perdere meno voti degli avversari) ma di conquistare nuovi elettori. Di saper parlare a cittadini sin lì estranei o sordi alle proposte riformatrici. Di saper costruire un’alternativa all’antipolitica.
L’importanza di questo nodo è accentuata, non attenuata, dal carattere regionale di queste elezioni e dal disfacimento del centrodestra. Proprio nelle Regioni, infatti, nei feudi dei “partiti microbaronali” — per dirla con Mauro Calise — il disinquinamento doveva esser più radicale: qui hanno trovato il massimo alimento le devastazioni delle regole, lo stravolgimento della funzione pubblica, il dilagare della “corruzione inconsapevole” (cioè della normalità della corruzione) che Roberto Saviano ha segnalato diversi anni fa. Qui, nella crescente disaffezione per la politica, è cresciuto il potere dei padroni e dei padroncini delle tessere e dei voti, vera negazione della democrazia.
Nella battaglia per la legalità la Campania è uno dei luoghi centrali e simbolici, ovviamente, ma è impressionante nel suo insieme il panorama di indecenze che le molte liste regionali propongono agli elettori. Il fenomeno riguarda tutte le formazioni e di alcune rende esplicito il definitivo declino, ma non avrebbe credibilità una forza riformatrice che si rassegnasse a quei guasti. Che considerasse normale comprenderli, almeno in parte, al proprio interno. Sono eloquenti i primi risultati di un’indagine sul Pd romano affidata a Fabrizio Barca dal presidente Orfini dopo l’esplodere di “mafia capitale”: accanto a un “partito buono” ne è emerso un altro, “pericoloso e dannoso”. Attendiamo ora le conclusioni dell’indagine e il suo estendersi ad altre realtà del Pd. E stupisce la latitanza su questi temi della pur combattiva minoranza bersaniana, o come si voglia chiamare, pronta a cogliere ogni (altra) occasione pur di mettere in difficoltà il premier.
Si consideri infine il disfacimento del centrodestra, che in parte alimenta il rinnovato estremismo leghista e molto di più, forse, l’ulteriore sfiducia nella democrazia. Favorisce il diffondersi di rancori sociali e culturali, insoddisfazioni, umori melmosi, insofferenze per la quotidianità delle regole: rischia di essere drammatico l’appannarsi di alternative riformatrici. Più di vent’anni fa Sandro Viola scriveva su questo giornale: «quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un’alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi, e non si riesce assolutamente a vedere chi sarà capace, a quel punto, di intraprendere l’opera di disinquinamento ». Era il dicembre del 1994 ed è quindi il degrado di anni, non di mesi, che oggi presenta il conto. È il progressivo prevalere del senso cinico sul senso civico, per dirla con Ilvo Diamanti. È una mutazione del Paese che ha fatto impallidire gli anni di Tangentopoli ed ha eroso onestà e credibilità di parti sempre più ampie di ceto politico, imprenditori, burocrazia di Stato. Com’è possibile sottovalutare la gravità della situazione? Com’è possibile nascondersi la necessità e l’urgenza di offrire segnali fortissimi in controtendenza? Renzi aveva saputo cogliere più di altri questo nodo, c’è da sperare che sappia riprendere quel filo: la ricostruzione della fiducia nel futuro parte soprattutto da qui.