domenica 24 maggio 2015

Repubblica 24.5.15
Tilde Giani Gallino
“Ho scelto di studiare l’infanzia perché rubarono la mia”
Una vita dedicata all’approfondimento della psicologia dello siluppo e al confronto con i colleghi
colloquio con Antonio Gnoli

LA PSICOLOGIA
Ha studiato a Stanford, California, in Inghilterra, Austria, Francia, Svezia, Danimarca, è stata professore ordinario di Psicologia dello Sviluppo all’università di Torino, si è dedicata ai processi emotivi e cognitivi dei bambini
LA FOTOGRAFIA
Ha studiato il rapporto tra psicologia e fotografia, al quale è dedicato il suo sito psicologiaefotografia.it.
Membro della World Photography Organisation, riflessioni e scatti sono in libri come L’immagine e lo sguardo , Antigone
LE PUBBLICAZIONI
Molti i libri e i saggi dedicati alla psicologia, da Il sistema bambino , Bollati Boringhieri, a Famiglie 2000 e La ferita e il re , Raffaello Cortina. Viaggio nell’altra Germania
(Einaudi) contiene anche suoi scatti fotografici
L’ULTIMO LIBRO
È uscito da poco in libreria il romanzo autobiografico
Non avevo sei anni ed ero già in guerra ( Einaudi, pagg. 216, euro 22), in cui ripercorre il periodo precedente e successivo al secondo conflitto mondiale con gli occhi di Tilde bambina

PER tutta la vita (almeno quella accademica e professionale) Tilde Giani Gallino si è occupata della psiche dei bambini. Cos’è quel mondo interiore che i programmi universitari hanno battezzato “psicologia dell’età evolutiva”? Il primo nome che mi viene in mente — mentre siedo di fronte a questa bella signora dai modi cortesi — è Jean Piaget. «Un pioniere», dice. «Ma come a volte accade ai pionieri ha aperto strade che forse era meglio abbandonare». Ecco, la prima sorpresa. La signora non è tenera con il grande psicologo svizzero. «Non è che non lo sono e poi guai a parlar male di Piaget. La sua scuola ha fatto molti proseliti. Ma era in origine un biologo. Le sue tesi, per quanto popolari, non mi hanno chiarito cosa fosse l’intelligenza di un bambino». Si ferma qui la signora. Che tra l’altro, con piglio narrativo, ha affrontato in un libro ( Non avevo sei anni ed ero già in guerra, Einaudi) la sua di infanzia così segnata, nei ricordi della guerra, sia dai favori della sorte che dalle sventure.
Perché ha sentito il bisogno di tornare agli anni della guerra?
«Perché avevo sei anni e nessuno ci disse allora che ci sarebbe stata rubata l’infanzia. Nessuno ci chiese scusa né ci restituì l’età perduta».
Ci sono eventi che ci sovrastano. Chi avrebbe dovuto chiederle scusa?
«Le parlo col cuore della bambina di allora. Non certo con la ragione di oggi. Non c’è un ministero degli affetti risarcibili dove riscuotere quanto si è perso. Eppure l’ingiustizia segnò gli anni che videro me e tanti altri strappati ai loro sogni. E se c’è una morale in quelle storie singole, spesso drammatiche, bisognerebbe avere la forza di parlarne. Se non altro perché ho l’impressione che tutto si ripeta, come in un copione già scritto. Le guerre di oggi con l’infanzia umiliata, i barconi pieni di bambini terrorizzati, la fame che flagella ogni cosa, ci mostrano i segni di una lezione che non abbiamo imparato».
Dove è nata?
«A Torino. Ero una bambina adorata e felice. Poi arrivò la trasformazione. Alla fine del 1942 sfollammo. Finimmo in un paesino a una trentina di chilometri da Torino. Ci allontanavamo dall’incubo dei bombardamenti, dalle notti trascorse in cantina, dalle persecuzioni e dai morti. Partimmo io e la mamma. Leggevo nei suoi occhi la disperazione. E mi sembrava che il mondo che lasciavamo e che avevo amato non sarebbe più tornato».
In quale paesino finiste?
«A Trana. L’adattamento fu difficile, anzi terribile. Mi sembrava di essere stata catapultata in un mondo preistorico. Mi iscrissi alla seconda elementare e percepivo nei compagni di classe, quasi tutti figli di contadini, l’ostilità. Era il branco che in quella scuola rurale voleva imporre le sue leggi. Fu dura. Passò del tempo perché riuscissi a creare una qualche forma di convivenza».
A parte ciò potevate, lei e la mamma, considerarvi salve.
«Salve? Quando sembrò che la guerra fosse finita e tutti pensammo con sollievo al rientro, il paese, intendo l’Italia, annichilì. Alla fine del 1943 ricominciò l’incubo. Ancora più atroce. I tedeschi occuparono il nord. I fascisti si organizzarono nella Repubblica di Salò. Mostrando, se è possibile, una ferocia ancora maggiore. La guerra non era finita. Era ricominciata. Più spietata di prima».
Cosa accadde?
«A Trana arrivò una divisione della Wehrmacht. Un drappello di partigiani aveva sparato a due tedeschi su di un sidecar. Si diffuse nella popolazione la paura della rappresaglia. Ci rifugiammo nella cantina dell’albergo dove vivevamo. Si riempì di gente del paese. Tutti pigiati in un clima soffocante. Sentivo le urla: ci ammazzeranno tutti! I lamenti, le imprecazioni contro i partigiani. A distanza, ma sempre più vicini, si udivano i cannoneggiamenti. Erano i tedeschi che si avvicinavano».
E vi trovarono?
«Sì, udimmo dei colpi al portone. Fortissimi. Ci spinsero fuori. Sullo stradone e poi in una piazzetta. Misero al muro un certo numero di noi. Tra costoro c’era anche Baba, il marito della mia madrina. Il plotone schierato. Il comandante pronto a dare l’ordine. Fu in quel momento che mi divincolai e corsi davanti a lui. Mi gettai ai suoi piedi. Gli gridai: “Baba no, non uccidetelo!”. Mi guardò interdetto, stupito. Poi con la maparmi no mi afferrò il braccio sollevandomi. Quel gesto servì a interrompere l’esecuzione».
Pensa sia bastata l’implorazione di una bambina?
«Penso che contribuì a cambiare l’ordine delle cose. L’interruzione permise di riprendere le trattative. Alla fine i tedeschi, che comunque erano in ritirata, portarono alcuni di noi, tra cui io, come ostaggi. Compresi solo anni dopo cosa volesse dire la parola “ostaggio” e perché per tutto il tempo la madrina mi aveva nascosto il vero scopo di quel trasferimento, ma ero già diventata grande».
Che Torino ritrovò dopo la guerra?
«Avevo 11 anni. Vedevo i cantieri e la città che rinasceva. Ho talvolta pensato che le cose vanno apprezzate dal loro inizio e mi pareva che Torino rinascesse bene. Salda. Forte. Elegante».
Lei era uscita da un’infanzia non facile. Erano paragonabili la distruzione di una città a quella di una psiche?
«Le due cose, in qualche modo, si corrispondevano. E credo che tra i motivi che mi hanno spinto a occu- dell’infanzia ci fosse anche la necessità di comprendere una vita al proprio inizio. Niente è più affascinante dell’aurora. Anche quando è sconvolta dai temporali».
Ha manifestato alcune riserve su Piaget. Chi sono stati i suoi referenti?
«Naturalmente Freud e poi molta scuola americana. Passai alcuni anni in California, nella prima metà degli anni Sessanta».
Anni mitici secondo un certo canone.
«Anni di grande cambiamento. Con mio marito, Luciano, e due figli, sbarcammo a Los Angeles e andammo a vivere a Palo Alto. C’erano state le prime sommosse di studenti. Tutto partì da Berkeley. Era interessante vedere un movimento di giovani impegnato a sovvertire l’ordine universitario. Ricordo la presenza costante di Herbert Marcuse».
Lo ha conosciuto?
«Era lì come visiting professor. Partecipai a un’assemblea dove prese la parola. Dal palco, stringendo un sigaro tra le dita, spiegò perché eravamo ormai tutti asserviti al potere capitalistico. Colpiva la sua franchezza e brutalità concettuale. Se la prese anche con il marxismo sovietico. Ricordo l’attenzione religiosa con cui i giovani seguivano se non il suo pensiero le sue parole».
Aveva un grande seguito tra gli studenti?
«Il credito era enorme. Tra l’altro, molte delle loro richieste si basavano su due libri: Eros e civiltà, che uscì nella metà degli anni Cinquanta e proponeva un’idea di società liberata dai vincoli della repressione sessuale. L’altro era L’uomo a una dimensione che io lessi l’anno stesso in cui uscì, nel 1964. Era una spietata critica alla società industriale. Ai guasti che aveva prodotto. Alla sua essenza totalitaria. L’impressione che suscitò in America fu enorme. E un paio di anni dopo Giulio Einaudi chiese a me e a mio marito di tradurlo».
Parlaste mai con lui?
«Lo vedemmo per diverse sere a Stanford, dove lavoravamo. La mia impressione è che privatamente era una persona dura, rigida, non amabile. Mi deluse soprattutto se lo confrontavo con Erik Erikson che era mio professore di psicologia e soprattutto con quella figura straordinaria che fu Bruno Bettelheim».
Furono loro i suoi maestri?
«Non mi piace chiamarli “maestri”: negli Usa nessuno l’avrebbe fatto. Erano “amici”. Parlavo e discutevo ogni giorno con gli uni o con gli altri a piacere, da pari a pari, mentre passeggiavamo nei viali dell’università ».
Che ricordo ha di Bettelheim?
«Era un uomo adorabile che aveva enormemente sofferto».
Lei dice adorabile. Alla sua morte una biografa ne ha scoperto il lato oscuro, autoritario anche nei riguardi di quell’infanzia che lui diceva di difendere e che sembra trattasse con una certa durezza. Perfino, secondo alcuni, con violenza.
«Violento no, ma autoritario sì. Il suo lavoro di psicologo, come è noto, fu sui bambini autistici. Aveva creato a Chicago un istituto tutto per loro. E tra le regole che aveva dato c’era impedire che i genitori si mescolassero con quei bambini. Sosteneva che non avessero l’adattabilità per trattare con loro. E quella distanza imposta non fu gradita da tutti. C’è un altro episodio che complicò i suoi rapporti con l’amministrazione dell’Università».
Quale?
«Aveva voluto che nella grande sala dove i bambini venivano riuniti una delle pareti fosse rivestita d’oro ».
Oro vero?
«Francamente non lo so. Ma vidi l’enorme “tappezzeria”, che non avrebbe sfigurato in uno sfarzoso palazzo di Bisanzio, e gli chiesi quale fosse il senso. Mi rispose che quella parete doveva simboleggiare tutto ciò che a quei bambini l’ambiente aveva tolto. Era la loro rivincita simbolica sulla “fortezza vuota”. Non so se fosse una stramberia o cosa. Ma la comunità non gradì quella spesa folle e si scatenò una campagna contro di lui».
E del suicidio cosa pensa?
«Avvenne in circostanze terribili. Si soffocò con un sacchetto di plastica nel quale infilò la testa. Credo soffrisse di depressione. Un paio d’anni prima anche Primo Levi si era tolto la vita. Da ebrei avevano vissuto entrambi la terribile esperienza dei campi di concentramento. C’era una relazione? Non lo so. Ma so che Levi non sopportava l’idea di essere un sopravvissuto. La sentiva come una colpa inestinguibile.
Lo dice perché gliene parlò?
«Non eravamo così in confidenza. Capitava che a Torino ci incontrassimo da amici comuni. E spesso durante la cena ci sedevamo accanto. Era un uomo gentile, acuto. Ma non mi ha mai parlato dei lager in cui era stato e io non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo. Solo una volta accennò al fatto che avrebbe forse desiderato una vita diversa. Tra le risa, il rumore delle voci e il tintinnio delle posate quella frase mi colpì. Usciva dalla convenzionalità. Rivelava una sofferenza. Un dolore composto».
C’è differenza tra sofferenza e dolore?
«Sofferenza e dolore sono termini che in certi casi possono equivalersi. Nell’ottica psicologica la sofferenza è piuttosto relativa ad un particolare stato d’animo. In quella medica è più comune parlare di dolore fisico».
E in una bambina di sei anni cosa fu quella sofferenza?
«Per me una crescita che non avevo chiesto né voluto. Lo sguardo dei bambini verso il mondo è colmo di meraviglia. A me sottrassero la meraviglia. Restava la durezza del mondo contadino. Le facce paonazze delle lavandaie, con le mani deturpate, le ginocchia piagate e le ossa rotte. La “Granda”, una figura terribile della quale venni a conoscenza».
Chi era?
«Erano le vecchie madri dispotiche. Aspre, autoritarie, imponenti. Scoprii che indossavano sette o otto gonne che le rendevano monumentali. Il mazzo di chiavi alla cintola lasciava intuire di chi fosse il potere. E poi vidi le prime mondine. Le cosce tormentate dalle punture di zanzare. Le piaghe provocate dalle sanguisughe. Questo era il nord contadino che conobbi. Composto da piccole comunità arcaiche ma anche solidali. Dove il tempo era scandito dal rintocco delle campane. Ricordo un episodio che accadde in una famiglia benestante ».
Ce lo racconti.
«Fu la nascita di un bimbo con il labbro leporino. Una rara malformazione. Per il resto era sano. Si sparse la notizia in paese. Si formò incredibilmente una lunga fila, davanti alla casa di quella coppia sfortunata, di gente del paese che portava la propria solidarietà. Erano tutti vestiti a festa. Come se andassero a una cerimonia. Poi uscendo dalla visita li sentivo lamentarsi. Quel labbro — come tirato da briglie invisibili — era considerato la punizione divina che ricadeva sull’intera comunità. C’era chi piangeva e chi si disperava. Quel mondo, solo pochi anni dopo, non sarebbe più stato lo stesso. Non so se per me fu un privilegio o una fatalità conoscerlo».
Qualcosa di forte le ha lasciato.
«Come anche qualcosa di forte mi tolse. La mia vita non fu più la stessa. Nel frattempo erano morti mio padre, la mia madrina. Persone alle quali avevo voluto bene. La situazione economica precipitò. La mamma intraprese il lavoro di sarta. Per anni, nell’illusione di un’adolescenza monotona, vissi questa nuova condizione. Opaca e frustrante. Ripensavo agli inverni freddi di quei maledetti tre anni. Alla selvaggia caduta dal paradiso. Ci volle tempo, tanto tempo, perché ritrovassi me stessa».