domenica 24 maggio 2015

Repubblica 24.5.15
Ritratto di un maestro per niente solitario
di Cesare De Seta

MILANO NELL’UNIVERSO dell’arte di ogni tempo c’è un astro luminoso che risponde al nome di Leonardo da Vinci, anzi il suo genio è una cometa formata da un centro e da un’aureola densa di corpi celesti. Il primo merito della mostra Leonardo da Vinci 1452 1-519, al Palazzo Reale di Milano (fino al 19 luglio, catalogo Skira, pagg. 614, un’enciclopedia di cui s’avrà sempre bisogno) è quello di avergli associato una serie di artisti che gli sono stati vicini non solo nel tempo che concluse la sua vita a sessantasette anni nel dorato esilio del Castello di Amboise. Una mostra milanese, sia per il legame che Leonardo ebbe con la città in cui visse dal 1482 al 1499, sia perché essa custodisce alcuni capolavori assoluti, sia infine perché i curatori Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio – leonardisti di rango – hanno voluto conferire alla mostra questo carattere. Essa s’apre nel nome del disegno che, a partire da Cennino Cennini, è il fondamento di ogni arte figurativa: Leonardo fu un ben degno erede di questa tradizione critica che ebbe in Firenze la sua patria elettiva. Il celebre Paesaggio degli Uffizi (1473) testimonia l’orgoglio di poter contare sulle risorse della prospettiva come chiave di volta di un nuovo e rivoluzionario sapere. La sicurezza giovanile di poter dominare e rappresentare ogni cosa, alla fine della vita, sembra disfarsi con i disegni dei Diluvi dove precipitano sassi e pietre, o in un mulinare di vortici come nel Temporale: la concezione della natura di Leonardo è radicalmente mutata. E la natura, sembra voler dire il maestro, non si lascia dominare dall’uomo. Quante volte ce ne dimentichiamo? I disegni citati sono incipit e exodus della rassegna.
Le dodici sezioni della mostra, circa 200 pezzi, hanno un andamento sistematico: mettono a confronto l’opera di Leonardo con quanti lo precedettero e lo seguirono. Un visàvis che lo libera da quell’aura romantica di genio isolato e solitario fin troppo abusata: non lo fu, basti ricordare il con- fronto-scontro con il giovane Michelangelo a Firenze. Leonardo si misurò con tutte le condizioni dell’uomo del suo tempo: a partire dal rapporto, non sempre facile, col potere degli Stati in cui trascorse la sua vita. Fu tutto Leonardo: pittore, scultore, scenografo, ingegnere militare, topografo e inventore di una mirabolante serie di “machinae” per la guerra e la pace, o che ambivano a volare in cielo o a inabissarsi nel fondo del mare. Fu tanta la sua ansia di sapere e sperimentare che, alla fine della vita, patì l’angoscia di aver perso di vista l’unità della conoscenza: quello che lui stesso definisce un “regno unito”. Un mito irraggiungibile anche per un genio, proprio come i miti dell’antico che aveva imparato ad amare soprattutto a Roma e in Villa Adriana a Tivoli, perché sentiva profondamente che «l’imitazione delle cose antiche è più laudabile delle moderne» o quando scrive «imita quanto puoi li Greci e li Latini», ricorda Marani. Una sezione è dedicata a questo tema: La Venere accovacciata è la fonte delle sue Leda, numerosi i disegni con Ercole e Nettuno che attingono alla statuaria antica . Fonte a cui abbeverarsi. La sfida più ardita fu quella di perseguire l’identità tra arte e scienza, con una sete di conoscenza che rompe le barriere preesistenti e ha la sua formulazione teorica nel Trattato della pittura (circa 1490-92) quando ridipinge La Vergine delle Rocce.
Pittura e scienza, perché la pittura è scienza del rappresentare, l’occhio e il disegno gli strumenti di cui avvalersi. Non fu un uomo colto, ma è tra gli artisti del Rinascimento che ha lasciato una tale messe di testi che ha pochi confronti. Aveva imparato dal maestro Andrea del Verrocchio a impastar colori, a cesellare, a sentire la forza della materia inerte che si fa forma d’arte: aveva letto Alberti e Francesco di Giorgio, dai maggior trattati di matematica e geometria trae origine la ricerca sull’equivalenza tra superfici piane e curve. Da questo sapere già Paolo Uccello giunse agli studi prospettici del “mazzocchio” e Leonardo ne seguì la strada fino al culmine prospettico della “ruota dentata” (1510). Ma tutto viene ricondotto alla pittura già nell’ Annunciazione ( 1480): piccolo olio su tavola (Louvre) in cui l’architettura, le figure dell’angelo e della Vergine, il paesaggio sono unità inscindibile. I suoi paesaggi, che sono fondo in tante celebri opere, testimoniano che conosceva i fiamminghi e le sue rocce stratificate sembrano guidate dalle mani di un geologo, come già s’eran viste in opere di Filippino Lippi, Botticelli, e ancor meglio in Mantegna.
Fu memorabile ritrattista come Antonello da Messina e Giovanni Bellini e la Belle Ferronière ( 1495) olio su tavola di noce (Louvre) lascia sempre stupefatti: il suo sguardo non è rivolto all’osservatore ma induce a spostarsi verso destra. Ma chi guardano questi occhi? Perché è così enigmatica? È Lucrezia Crivelli, l’amante di Ludovico il Moro? Rimanda al perfetto busto della Dama col mazzolino del Verrocchio e alla Dama dell’Ermellino , ma non ha la medesima fisiognomica. Questa parola s’associa all’anatomia del volto e del corpo umano in cui Leonardo non ha pari con ritratti in sanguigna di giovani, di vecchi e scarnificazione di membra. Introduce un tema originale Maria Teresa Fiorio: quello della forma scultorea che si ritrova anche nella pittura e nel disegno. Leonardo spregiava la scultura, poneva in cima all’Olimpo la poesia e la pittura: la mostra mette in evidenza le due versioni del Monumento Sforza e del Monumento Trivulzio ed anche in questo sta la milanesità della mostra. Il San Girolamo ( 1490) è dipinto, ma ha la sostanza di una scultura, una tridimensionalità di forma che è esaltata dal torace scheletrito e dal volto dolente. L’unico contemporaneo che cita Leonardo nei suoi testi è Leon Battista Alberti e ne è il più grande erede.