sabato 23 maggio 2015

Repubblica 23.5.15
Il Trono di Spade ultimo classico di noi uomini senza passato
Nell’era dell’eterno presente web la febbre per la serie tv rivela un desiderio di radici culturali
di Silvia Ronchey


UNmese dopo l’esordio della quinta serie di Il Trono di Spade la Hbo indaga sugli indirizzi IP che hanno scaricato in anticipo i leaks delle prime quattro puntate: 100 mila download da piattaforme corsare sono un indicatore di conquista della frangia avanzata dell’audience globale, accentuano la tendenza delle stagioni precedenti, scaricate illegalmente oltre sette milioni di volte, confermano Il Trono di Spade una delle serie televisive più piratate della storia. A sua volta, la produzione commerciale incrementa esponenzialmente i suoi numeri: solo in America la prima puntata della quinta serie ha avuto oltre 8 milioni di spettatori, un milione e rotti in più rispetto alla quarta serie, che aveva a sua volta migliorato gli ascolti delle precedenti.
Tra legalità e pirateria lo spazio virtuale premia nel Trono di Spade una narrazione che allarga il suo target non semplificando ma complicando, raffinando, eludendo le disambiguazioni. I personaggi crescono in complessità, accrescono le loro sfumature caratteriali. La distinzione tra buoni e cattivi e la stessa polarità tra bene e male, che stava al cuore gotico-fantasy dei libri di George Martin da cui è tratta, è più esile nello script televisivo, che diffonde ambiguità e sofisticatezza in un bacino di utenza che accomuna gli abbonati Sky e la fascia underground dell’avanguardia acculturata. A questi due gruppi si aggiunge un terzo partito: i dotti hanno fatto del Trono di Spade la palestra di uno scambio erusola dito che ormai valica i confini del web e i limiti dei fan club, passa alle università e ai centri di ricerca, fa ritornare il pixel alla carta, rimette nelle biblioteche la mappa di un passato immaginario che si sostituisce a quello reale ormai in corso di oblio.
La verità è che non abbiamo più passato. Nella microstruttura delle news, dei tweet, dei post, nelle fibre della comunicazione istantanea, il mondo è fatto di presente. Non è una colpa — è un dato evolutivo, forse anche eversivo. Il rarefarsi e interrompersi della catena di trasmissione del sapere, sperimentato dall’occidente a partire dalla metà del Novecento, ha portato alla tabula rasa. «Du passé faisons table rase», cantava già nell’ Internazionale il comunardo Pottier. La pressoché totale perdita del passato è forse conseguenza del discredito ideologico delle dottrine novecentesche più che della rivoluzione mediatica del terzo millennio, che comunque, modificando i mezzi di accesso all’informazione, ha assecondato ed elevato a potenza la crisi di quelli tradizionali. Il passato, svuotato di informazioni, è rimasto come status. È la profondità abissale di un’antichità favolosa che legittima e dà prestigio. L’obiettivo del Trono di spade è rappresentare il passato assente.
Proprio come gli oggetti letterari del passato, i nomi dei luoghi del Trono di Spade sono resi più saldi alla memoria dall’estraneità all’esperienza, dalla non visitabilità: King’s Landing, Winterfell, Castelry Rock esistono quanto la Elsinore di Amleto o il Palazzo di Menelao del Faust secondo. Svuotandosi di fondamento geostorico, il passato rimane come distanza assoluta e come infinita possibilità di ibridazione. Nei nomi dei personaggi risuonano radici latine e barbariche, sassoni e celtiche, semitiche e sanscrite, greche, slave, bizantine, iraniche, mesopotamiche, mongole. Come la sconfinata, spaesaente onomastica del Trono di Spade ha colonizzato lo spazio lasciato vuoto dal passato, così l’intero sillabo della letteratura classica è sciorinato in immagini, suoni, costumi. Frammenti di tradizioni e leggende, schegge di miti e saghe vorticano come in un caleidoscopio o nella playlist di un dj impazzito. Il mondo greco e quello romano e quello bretone; il crepuscolo nordico, nel disperato scenario wagneriano della Barriera; i caftani degli eunuchi bizantini, i nodi dei sacerdoti isiaci, le corone dei romani, le asce dei vichinghi, gli elmi dei saraceni: ogni dettaglio è frutto di un’arte combinatoria esercitata su una disponibilità senza precedenti di dati di studio, solo parzialmente integrata dalla fiction creativa.
La forza di persuasione di questa base dati sta nell’antico espediente della comunicazione non scritta. E certo anche nel suo fondamento archetipico. La topografia fantastica del Trono di Spade ricalca l’esile traccia lasciata dalla storia universale nell’inconscio collettivo: la Peni- di Valyria, antico splendore in rovina; la Baia degli Schiavisti, ingiustizia sociale da sconfiggere; le città libere — Braavos, Pentos, Volantis — aperte ai dotti, agli esteti e agli eccentrici; la Barriera, da presidiare e difendere, sul ciglio delle tenebre, dall’invasione di nuovi popoli, nuovi diseredati: i Bruti, che gli stessi Guardiani della Notte via via però assorbono; la Terra delle Ombre, da cui non cessano di emergere infiniti altri popoli: gli Estranei, i non vivi, ancora neppure soggetti di storia. Le popolazioni al di là della Barriera sono un’aggiunta tardonovecentesca al calderone degli archetipi e dei miti del filone fantasy alla Tolkien: l’idea di un continuo affollarsi sugli spalti della storia, di un ciclico prela mere sui bordi della società di nuove classi subalterne. Un altro apporto nuovo è il mondo di Khaleesi, regina dei Dothraki, Madre dei Draghi dai capelli di cenere, ultima discendente dell’estenuata dinastia iperborea che contende a re più celtici il trono di spade. Secondo i dati della Social Security Administration americana, Khaleesi è diventato oggi un nome di battesimo straordinariamente diffuso. Nella sua avanzata attraverso il deserto, Khaleesi resuscita la memoria del matriarcato, insinua la promessa della supremazia femminile. Il mondo dothraki, l’unico tendenzialmente democratico nel gioco dei troni, riverbera la complessità degli orienti assolati, delle civiltà meticce, supera l’insieme di pregiudizi con cui guardiamo oggi all’islam. Lo dimostra anche la sua neolingua fittizia, appartenente al ceppo semitico e dall’ampio influsso arabo, ormai una lingua viva . Living language: Dothraki è anche un sito, le sue espressioni sono diventate modi di dire diffusi in tutto il web.
L’obiettivo del Trono di spade è rappresentare il classico mancante. Si diventa un classico solo con il prestigio del passato. Il passato in cui ci porta è un punto indefinito della caduta dell’impero romano. Come scriveva Borges: «L’impero romano non è mai finito e ci troviamo in un punto qualunque della sua decadenza e caduta». Come per il ciclo arturiano, così per ogni costruzione di mondi, da Tolkien a Blade Runner, il riferimento è quell’indefinita continuazione dell’impero alla fine della decadenza che chiamiamo Medio Evo tanto fantasiosamente quanto si può chiamare Terra di Mezzo la cosiddetta cerniera tra criminalità organizzata e colletti bianchi dell’inchiesta su Mafia Capitale.
C’è sempre un eufemismo, una censura, quando si parla di cose di mezzo. La storia, come la geografia, definisce, delimita, non ha vie di mezzo: un tempo, un luogo, o sono una cosa, o sono un’altra; lineare, circolare, dialettico, il divenire storico comunque diviene. Ripetiamo Medio Evo quando parliamo di cose che non capiamo o che non vogliamo che esistano, o tutte e due insieme. I nostri luoghi comuni dominanti si nutrono di una definizione “medievale” del mondo islamico a significare, alternativamente, l’arretratezza civile, sociale, economica della sua storia postcoloniale, o la brutalità delle guerre che vi scateniamo. Ma non esiste il Medio Evo, né esistono i secoli bui: esiste l’antico, con le sue persistenze, rinascenze, resistenze oscurantiste; ed esiste il moderno, con le sue rivoluzioni e le sue barriere, sociali, etniche, geografiche. Il Medio Evo è la rappresentazione irreale, puramente astratta, della dialettica tra l’antico e il moderno, la sua materializzazione in un territorio immaginario di castelli e duelli. È un’ossessione continuamente emessa, ridefinita e ricreata dalla psiche collettiva e dai suoi interpreti: che sono, prima ancora dei vari autori e sceneggiatori, i molti, diversi e avventurosi spettatori del Trono di Spade .
IL DIPINTO La foresta incantata di John Gilbert