Repubblica 23.5.15
Siamo rimasti senza scrittori e senza popolo
Intervista ad Alberto Asor Rosa. Torna il suo celebre saggio. Con un sequel
di Simonetta Fiori
CINQUANT’ANNI fa con Scrittori e popolo fece piangere i mostri sacri della sinistra intellettuale. Oggi con Scrittori e massa, che praticamente ne è un sequel, non fustiga più nessuno. O meglio, non fustiga più nessuno in particolare, forse per mancanza sia degli autori che del popolo. Alberto Asor Rosa ridacchia in un angolo della sua luminosa casa di Borgo Pio, determinato a non accettare provocazioni. «Il popolo non c’è più, sostituito dalla massa. Ma gli scrittori resistono, altrimenti non avrei scritto il nuovo libro».
Certo fa effetto leggere tutto di filato l’ opus maximum del 1965, un attacco radicale alle fondamenta gramsciano-storiciste del sistema culturale italiano, e il lavoro successivo dedicato al grande mutamento. In un unico volume (Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi) è racchiusa la storia culturale di questo paese, incluso il terremoto degli ultimi decenni. Con qualche risultato paradossale, che attiene alla biografia di Asor.
Irriverente, severo, anche un po’ aggressivo con Pasolini e Calvino, Vittorini e Pavese. E rispettoso, attento, misurato con Piccolo, Scurati e Veronesi, per citare tra i più famosi. Professore, che succede?
«Una prima spiegazione è anagrafica: al giovane spregiudicato e ribelle è subentrato un vecchio rispettoso del suo prossimo, per un fatto biologico. E poi m’è parso che nei confronti degli scrittori più recenti fosse più opportuno un atteggiamento di comprensione ».
Perché?
«Sono stati meno fortunati della nostra generazione. A 30, a 40, forse anche a 50 anni, non beneficiano di nessuna delle condizioni positive di cui abbiamo beneficiato noi. Nessuno di loro gode del sostegno di una società letteraria ormai dissolta».
Devono cavarsela da soli.
«Può sembrare paradossale, ma nella società di massa ognuno è costretto a cercare da sé. E nell’assenza di aggregati culturali si riempie il vuoto con una rete di relazioni private. Pensi a quel nuovo genere letterario che è il ringraziamento. Alla fine di ogni romanzo compaiono tabulae gratulatorie di impressionante ampiezza: compagni di vita, editor, amicizie varie. Ma quando mai Moravia o Calvino hanno ritenuto di dover ringraziare qualcuno?».
E in questa nuova rete l’editor diventa signore assoluto.
«Il rapporto tra autore e redazioni editoriali s’è fatto sempre più stretto e il compito di entrambi mi sembra sia quello di costruire trame che piacciano al pubblico. Naturalmente il rapporto con il mercato non è sempre così meccanico. Però mi convince l’analisi di Emanuele Trevi: la letteratura ha smesso di pensare. E l’unico compito che lo scrittore si assegna è lo story teller ».
Oggi la parola narrazione ha assunto una centralità ossessiva.
«Anche nella politica. E la narrazione deve soddisfare determinati criteri, che sono nel segno della normalizzazione».
È interessante la sua analisi: l’elemento che caratterizza la generazione di scrittori nati dal 1960 in poi è la rottura con la tradizione. La ignorano, non la conoscono.
«Hanno scavato un fossato rispetto alle generazioni precedenti. Fino a qualche tempo fa gli scrittori spendevano parte della ricerca nel confrontarsi con chi era venuto prima. Pasolini, Fortini e Calvino — gli ultimi tre classici — radicano la loro novità su una riflessione intorno al passato. Poi c’è stata la generazione degli eredi, ancora immersi nel clima culturale precedente: Cerami e Tabucchi, Starnone e Busi, Tondelli e Mari, per citarne alcuni. Infine la grande massa di autori degli ultimi decenni: tranne poche eccezioni come Mazzucco, pensano “il nuovo” come sciolto da qualsiasi debito con il passato».
Con quali conseguenze?
«Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. L’unico frammento di tradizione che ogni tanto emerge è quella pasoliniana, ad esempio nel Saviano della testimonianza etico-politica: io so. Ma il Calvino delle Lezioni americane che erano un grande lascito per gli scrittori del nuovo millennio, è scomparso».
Questo cosa comporta?
«Negli scrittori più giovani la riflessione razionale su ciò che significa scrivere e su come si scrive si è molto indebolita. Il messaggio calviniano che mescola fantasia e razionalità è inapplicabile. E insieme a Calvino — cosa ancor più grave — esce di scena la tradizione occidentale in cui questi elementi si sono mescolati in modo profondo. È difficile ravvisare nei romanzi degli ultimi vent’anni l’impronta di Baudelaire o di Kakfa o di Mann. Gli ormeggi si sono totalmente liberati ».
Lei lamenta la mancanza di follia. A cosa si riferisce?
«La follia è quella che trovi in Pirandello o Svevo, la derogazione dalle regole. Oggi non ce n’è uno che deroghi dalle regole. E tra l’assenza di follia e l’assenza di tragedia il nesso è stretto. Per usare una terminologia infantile, è raro imbattersi in romanzi che finiscano male. Un’eccezione è nel primo Giordano. Anche Ammaniti che pure ci presenta storie drammatiche non ce le fa mai leggere come tragedia, preferendo la commedia».
Un po’ di follia era in Scrittori e Popolo , che prendeva a schiaffi il meglio della cultura progressista.
«Direi meglio, incredibile sfrontatezza».
Cosa aveva in testa? Far saltare il sistema culturale della sinistra?
«Noi pensavamo che si potesse realizzare il progetto politico operaista. E per fare questo occorreva sgombrare il campo dal principale ostacolo al rinnovamento che era lo storicismo: una linea culturale — Croce-De Sanctis- Gramsci — condivisa non solo dal Pci ma da tutta l’intellettualità italiana del tempo».
Accusava Pasolini e Vittorini, anche un po’ il Calvino de Il sentiero dei nidi diragno, di essere subalterni alla tradizione che impediva di creare cose nuove. Agli scrittori di oggi rimprovera il contrario, di non conoscerla per niente la tradizione. Si ricorda il vecchio detto? Rivoluzionari a vent’anni, conservatori a ottanta.
«Non c’è dubbio. Ma la differenza di atteggiamento dipende anche dal diverso clima culturale. All’epoca le spinte al rinnovamento erano formidabili. Mentre scrivevo quel libro andavo a fare volantinaggio davanti ai cancelli delle fabbriche e non sentivo alcuna separazione tra la mia vita da letterato e la milizia politica. Oggi dove ti attacchi? Questo però non bisogna dirlo: un vecchio professore non deve essere né fustigatore né tragicamente pessimista».
Gliela fecero pagare, all’epoca?
«Si arrabbiarono molto. Sull’ Unità uscì un veemente attacco di Carlo Salinari dall’espressivo titolo: Un piccolo borghese sul piedistallo . Mentre un giorno sorpresi Sapegno che ridacchiava con il mio libro in mano: “Queste cose le ho sempre pensate”».
Pasolini non la perdonò.
«Incontrandomi all’Università mi guardò con gli occhi a mirino: Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita».
Si è annoiato molto a leggere i giovani contemporanei?
«No, affatto. Non ho mai smesso di farlo pur continuando a studiare Dante e Boccaccio. Scrivono un po’ troppo, questo sì. Credo che dipenda dalle potenzialità del computer. Potrei chiedere un provvedimento di legge perché si torni all’uso della penna».
IL LIBRO Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo 1965 Scrittori e massa 2015 (Einaudi, pagg. 432, euro 32)