sabato 23 maggio 2015

Repubblica 23.5.15
Governare il disordine, la sfida dei nuovi leader
di Thomas L. Friedman


PER essere una campagna elettorale iniziata con largo anticipo, è sorprendente che la maggior parte dei candidati abbia così poca voglia di affrontare i temi più caldi del momento, tanto meno quelli che si prospettano in futuro. Hillary Clinton non prende posizione in modo chiaro su due importanti questioni che lei stessa ha contribuito a negoziare da Segretario di stato: l’accordo di libero scambio trans-Pacifico e l’accordo nucleare con l’Iran. La campagna di Jeb Bush sembra impantanata sul fatto di decidere se egli è o non è il custode di suo fratello. Marco Rubio era favorevole a una riforma ad ampio raggio dell’immigrazione, poi ha cambiato idea e ora è contrario. E se i senatori Rand Paul e Bernie Sanders sono motivati da chiare ideologie, per il momento gli altri candidati manifestano un’ambizione a voler diventare presidente molto più persuasiva delle motivazioni per le quali dovrebbero diventarlo.
Le cose non potranno andare avanti così. Per rendersene conto è sufficiente ascoltare i titoli dei notiziari: ci troviamo nel bel mezzo di alcune enormi flessioni perturbatrici nell’ambito della tecnologia, del mercato del lavoro e della geopolitica che solleveranno questioni scottanti sul futuro del contratto del lavoro e del contratto sociale tra i governi e i loro impiegati e tra i datori di lavoro e i lavoratori. Questi problemi esploderanno tutti durante la prossima presidenza.
Quali ne sono i segni premonitori? Beh, per adesso il mio candidato preferito al titolo di autore del miglior incipit di un articolo di informazione quest’anno è Tom Goodwin, dirigente di Havas Media, il cui intervento del 3 marzo su Techcrunch. com iniziava così: “Uber, la più grande compagnia di taxi al mondo, non possiede vetture. Facebook, proprietario del social network più popolare del mondo, non crea contenuti. Alibaba, il rivenditore più efficace al mondo, non ha beni inventariati. E Airbnb, il più grosso fornitore al mondo di soluzioni ricettive, non possiede alcun bene immobiliare reale. Stiamo assistendo a qualcosa di molto interessante”.
Questo è poco ma sicuro. Ci troviamo all’inizio di una trasformazione molto significativa di ciò che vale la pena possedere. Le aziende di cui parlavamo hanno in comune una cosa: tutte hanno creato piattaforme fiduciarie nelle quali l’offerta incontra la domanda per oggetti e servizi che nessuno aveva pensato in precedenza di mettere a disposizione — una camera da letto in più nella propria casa, un posto a bordo della propria auto, un contatto commerciale tra un piccolo negoziante del Nord Dakota e un piccolo artigiano in Cina; oppure sono tutte piattaforme comportamentali che hanno generato come sottoprodotto informazioni di altissimo valore per i rivenditori al dettaglio o i pubblicitari, o ancora sono tutte piattaforme comportamentali nelle quali la gente comune può farsi un nome — per come guida, per come ospita qualcuno o per qualsiasi altra competenza si possa immaginare — per poi offrirsi al mercato su scala globale.
Tutto ciò nasce dalla crescita esponenziale dell’informatica — dalla potenza alla possibilità di archiviare e fare rete, a quella di generare e far interagire sensori e software — che ci consente sia di raccogliere enormi quantità di dati sia di applicare a questi ultimi programmi software in grado di evidenziarne gli schemi a una velocità e con una portata finora sconosciute. Tutto ciò sta rendendo meno complicate molte cose, come chiamare un taxi, prenotare una stanza a casa di qualcuno a Timbuctu, comprare verdura fresca, imparare da chiunque e ovunque a disegnare un pezzo di aeroplano da produrre con una stampante 3D in una sola settimana invece che in sei mesi. Ogni complessità sta per emanciparsi.
Un recente studio dell’Oxford Martin School è giunto alla conclusione che negli Stati Uniti entro i prossimi vent’anni il 47 per cento dei posti di lavoro corre un rischio molto alto di essere sostituito da macchine e software intelligenti. La cosa più singolare, fa notare James Manyika, direttore del McKinsey Global Institute e coautore di No Ordinary Disruption , è che contrariamente a quanto si potrebbe supporre da questo punto di vista corrono maggiori rischi i lavoratori della conoscenza che occupano i vertici e le posizioni intermedie, rispetto a chi svolge il lavoro fisico vero e proprio. Per generare oltre tremila comunicati finanziari al trimestre, per esempio, l’Associated Press adesso utilizza computer, non più giornalisti. Questo processo da un lato può affrancare i lavoratori e far sì che si occupino di mansioni più creative, per svolgere le quali dall’altro lato devono essere formati.
In geopolitica sussistono grandi contrapposizioni di potere, ma lo spartiacque più rilevante nel mondo di oggi non è più quello tra Oriente e Occidente, capitalisti e comunisti: sempre più spesso sarà quello tra Mondo dell’Ordine e Mondo del Disordine, a mano a mano che le pressioni di natura ambientale, settaria ed economica faranno piazza pulita di stati deboli e falliti. Tutti i giorni, ormai, leggiamo sui quotidiani di chi fugge dal Mondo del Disordine verso il Mondo dell’Ordine. I rohingya, un gruppo composto per lo più da musulmani, stanno cercando di raggiungere Tailandia e Malesia dal Myanmar e dal Bangladesh; africani e arabi fanno di tutto per guadare il Mediterraneo e raggiungere l’Europa; dall’America centrale alcuni genitori hanno mandato negli Stati Uniti migliaia di loro figli. La settimana scorsa il Washington Post ha reso noto che il governo di Israele ha iniziato a spedire una lettera ai 45mila profughi eritrei e sudanesi — arrivati in Israele a piedi, con mezzi di fortuna o via mare, alla ricerca di ordine e lavoro — per comunicare loro che hanno un mese di tempo a disposizione per accettare 3.500 dollari in contanti e un biglietto di sola andata per rimpatriare o trasferirsi in un non ben identificato paese terzo in Africa, perché in caso contrario potranno finire in carcere. L’anno scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e i rifugiati ha comunicato che in tutto il globo si contano più sfollati — 50 milioni circa — di quanti ce ne siano mai stati dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Il guaio è che non sappiamo proprio che cosa fare. Un tempo, per controllare molti di questi paesi nei quali regna il disordine facevamo affidamento su imperi, colonizzatori e dittatori, ma ormai viviamo in un’era postimperialista, post-colonialista e in qualche caso perfino post-dittatoriale. Nessuno vuole occuparsi delle zone nelle quali il disordine permea ogni cosa, perché tutto ciò che se ne ha in cambio è un conto da pagare. Per di più, la maggior parte di questi paesi è del tutto incapace di autogovernarsi in modo democratico. Chi assumerà dunque il controllo di queste aree? E se la risposta fosse “nessuno”? Questa sarà una delle più serie sfide di leadership del prossimo decennio.
In conclusione, volendo parafrasare Trotskij ancora una volta, possiamo dire che i nostri candidati preferiti alla presidenza forse non sono ancora interessati a parlare seriamente di futuro, ma il futuro sarà interessato a interloquire con loro. Traduzione di Anna Bissanti © 2-015 The New York Times