mercoledì 20 maggio 2015

Repubblica 20.5.15
I timori del leader sulle regionali
“Una vittoria per il rilancio, nei dem c’è chi rema contro”
di Goffredo De Marchis

ROMA Tornerà in Liguria, Matteo Renzi. Per non avere rimpianti nell’inseguimento di un risultato che è a portata di mano: la vittoria del Pd in 6 regioni sulle 7 chiamate al voto il 31 maggio. Tra meno di due settimane. A Palazzo Chigi continuano a dire che può finire «4 a 3». Un rito scaramantico e al tempo stesso una base di partenza in grado di dare maggiore risalto a un eventuale sbocco più positivo. Ma l’idea dell’en plein si fa strada nel cerchio stretto dei renziani. «Le condizioni di un successo ci sono — spiega il premier ai suoi collaboratori —. Sarebbero le seconde elezioni che vinciamo stando al governo, dopo le Europee del 2014. È un esito che in Italia non si è visto quasi mai. Diventerebbe un dato strutturale che renderà più forte il Pd e il governo ». La Liguria è la regione chiave per puntare alla vittoria quasi piena. «Siamo ancora in vantaggio — dice Renzi -. Un vantaggio leggero ma visibile. Però la situazione non è ancora definita. Ci sono ancora dieci giorni di campagna elettorale e tutto può succedere. Perché gli indecisi si conquistano adesso». L’Umbria, le Marche, la Toscana, la Puglia non sono a rischio secondo i calcoli degli strateghi del Pd. In Campania Vincenzo De Luca è vicino al traguardo e non lo indeboliscono le polemiche sugli impresentabili e sulla sua incompatibilità. L’impressione è che la battaglia in Veneto, malgrado la combattività di Alessandra Moretti, sia stata abbandonata dal Partito democratico psicologicamente ancor prima che fisicamente. In Liguria invece si gioca anche la partita sui futuri equilibri dentro il Pd, il rapporto con la minoranza nei prossimi mesi. E non solo. Perché alla fine la candidatura di Pastorino, sostenuto da Pippo Civati, Sergio Cofferati, Stefano Fassina e da un pezzo dei dem locali non sta favorendo il forzista Toti ma il candidato grillino. Il Movimento 5 stelle non accenna a scendere nei sondaggi. E se dovesse prendere una regione, l’effetto nazionale sarebbe pari se non superiore alla conquista di Parma.
Ecco perché Renzi pensa di tornare a Genova. La sfida con i dissidenti del Pd si può risolvere anche passando dalla Liguria. L’Italicum fa sentire i suoi effetti. «Anche sulla scuola - osserva Renzi - si muove un partito nel partito che cerca di intralciare la legge, che punta a farla fallire». Sono considerazioni che arrivano proprio nel giorno in cui governo e minoranza Pd hanno trovato l’intesa per stralciare il versamento del 5 per mille ai singoli istituti. È stata una mossa dell’esecutivo per proseguire i lavori, ma la promessa del ministro Giannini è recuperare la norma e infilarla nella prossima legge di stabilità o in qualche testo sulla riforma fiscale. Una tregua armata, ma pur sempre una tregua. Eppure Renzi vede movimenti a sinistra. Sa che i ribelli del Pd vivono le regionali come uno spartiacque sulla convivenza sotto lo stesso tetto. Più o meno lo stesso sentimento che accompagna il premier in queste ore. C’è un pezzo del partito che è uscito o sta per uscire: Civati e Fassina. E guarda al sindacato, che sia Cgil o Fiom, Camusso e Landini, per organizzare nuovi movimenti a sinistra. Ce n’è un altro che prepara una battaglia durissima contro la riforma costituzionale quando a giugno tornerà all’esame del Senato. Poi esiste uno spicchio che si attrezza per il futuro congresso quando si potrà sfidare Renzi per la segreteria.
Non è un mistero, neanche a Palazzo Chigi, che i bersaniani più agguerriti aspettino il segretario al varco dei numeri. Quello delle bandierine sulle regioni, quello assoluto del Pd e quello dell’astensione. Perché anche i non votanti , secondo i dissidenti, daranno il segno della forza o della debolezza della filosofia renziana, del «ghe pensi mi» denunciato da Pier Luigi Bersani, dell’uomo solo al comando. Con il 6 a 1, anche di fronte a un numero ampio di elettori che rimangono a casa, Renzi avrebbe molte più carte da giocare, anche all’interno del Pd. Per questo ha lasciato scoperta la poltrona di capogruppo fino a giugno, nonostante sia in pieno svolgimento alla Camera il voto sulla “buona scuola”. Sarà “usata” per rafforzare nuove intese tra i dem.
Ma l’impressione dei renziani è che la minoranza remi contro. Che vogliano usare le regionali come il secondo tempo del match sulla legge elettorale. «Io sto facendo campagna elettorale a tappeto. Vado ovunque mi chiamino. Il resto lo vedremo dopo», dice l’ex capogruppo Roberto Speranza, destinato a raccogliere il testimone di leader degli oppositori. Come dire: nessun fuoco amico. Anche Bersani viene considerato un dirigente che porta voti e sostiene candidati del Pd nei comuni e nelle regioni, lì dove viene chiamato. Però sia i ribelli sia Renzi considerano il risultato delle urne un altro passaggio della lunga resa dei conti che dura dalla fine del governo Letta. Una resa dei conti sul futuro del Pd e sulle chance di guardare avanti per il governo.