venerdì 1 maggio 2015

Repubblica 1.5.15
Su Palazzo Chigi il macigno previdenza
Così svanisce il sogno di un “tesoretto” ora rischiamo un deficit fuori controllo
di Federico Fubini


ROMA Se nel dicembre 2011 i mercati avessero capito che un muro portante della riforma pensioni era incostituzionale, e destinato a cadere, le conseguenze si sarebbero viste subito: probabilmente l’Italia avrebbe fatto default, o avrebbe chiamato la Troika, e quegli adeguamenti previdenziali strappati ieri grazie alla Corte costituzionale sarebbero parsi quasi irrilevanti. La difficoltà a monte sarebbe stata la stessa che hanno conosciuto milioni di greci: incassare gli assegni di cui da ieri 5,5 milioni di italiani attendono, con buoni argomenti legali, una nuova rivalutazione.
Ma è noto che la storia non si fa né con i “se”, né con il senno di poi. Pochi del resto ieri hanno pensato che, senza la rete di sicurezza della Banca centrale europea, dopo la sentenza della Consulta di ieri lo spread sui titoli di Stato si sarebbe di nuovo impennato. Ciò che conta ora è tutti i pensionati sopra i 1.450 euro lordi al mese — più di un terzo dei 16,3 milioni di italiani a riposo — andranno indennizzati. Sul passato, e sul futuro. Aspettano i rimborsi per il mancato adeguamento sul 2012, per quello del 2013, quindi gli interessi per entrambi gli anni e da ora potranno ricalcolare gli adeguamenti futuri del valore del loro trattamento di quiescenza a partire da una base più alta.
L’impatto è a più stadi. Il costo della sentenza per il contribuente è così complesso che anche il Tesoro ieri sera faticava a calcolarlo, o a capire come coprire l’ammanco. Le rivalutazioni il 2012 e 2013 valgono 4,8 miliardi, gli interessi di mora li portano a cinque, il ricalcolo degli adeguamenti futuri può valere (nel tempo) altre decine di miliardi. A sentenza ancora calda, nei cor- ridoi di Palazzo Chigi qualcuno ieri dava sfogo al fastidio per una decisione che mette la Corte costituzionale sopra al potere esecutivo e del parlamento su una materia così vitale. Ma l’ira non è una politica. Di certo, quando si depositerà nelle prossime ore, Palazzo Chigi e il Tesoro metteranno avvocati e tecnici al lavoro per cercare di opporsi, compensare, rimediare, coprire. È tutt’altro che certo che ci riusciranno, perché le falle aperte dai giudici costituzionali sulla previdenza sono almeno tre.
La più immediata è politica: Matteo Salvini ha incardinato la “politica economica” della Lega sull’assalto alla riforma pensioni cui Elsa Fornero, allora ministro, dette il nome e l’impianto. Il testo di quel provvedimento, inserito nel decreto “salva-Italia” del 22 dicembre 2011, si appella alla «contingente situazione finanziaria» di allora per congelare per due anni gli scatti sulle pensioni almeno tre volte più alte del minimo. Secondo i giudici costituzionali (la cui età media è 70 anni, otto su dodici in età di pensione) «le esigenze finanziarie del governo » — evitare il collasso allora imminente ed evidente — «non sono illustrate in dettaglio». Quel tassello della riforma dunque «valica i limiti di ragionevolezza e proporzionalità ». Si sa che la Consulta può solo decidere sulla base della Costituzione in merito a un ricorso specifico, senza doverne calcolare le conseguenze finanziarie o politiche. Ma da ieri Salvini ha un’arma in più da brandire, anche lui senza curarsi delle conseguenze.
C’è poi una falla di bilancio di impatto immediato. Se saranno da sborsare subito, quei cinque miliardi rischiano di cancellare qualunque discussione su un eventuale “tesoretto” e alzare il deficit di quest’anno dal 2,6% del Pil verso il 2,8%. Molto dipenderà da come il governo, come si anticipa in queste ore, riuscirà a “sterilizzare” l’impatto della sentenza della Consulta. Se non sarà possibile, o solo in parte, sarà ancora più difficile scrivere la Legge di stabilità da presentare in ottobre con un pacchetto di tagli di spesa. Servirà una manovra da almeno 15 miliardi, per evitare che scattino gli aumenti dell’Iva già previsti.
L’alternativa è una Finanziaria in deficit, ma ciò inizierebbe a rivelare la terza falla. È la meno visibile, ma la più profonda e pericolosa. Prima della sentenza di ieri, in base alle stime del Documento di economia e finanza, il costo delle pensioni in Italia sta esplodendo. Passa dai 248,9 miliardi del 2012 ai 283,9 miliardi del 2019. Un salto di 35, o meglio ora almeno 40 miliardi. Dal 2014 al 2019, il peso della previdenza cresce già ora oltre il doppio più in fretta del prodotto interno lordo (calcolato includendovi l’inflazione). Con la sentenza di ieri lo squilibrio può solo peggiorare. È il segno di un Paese che invecchia in modo impressionante. L’anno scorso sono nati in Italia appena mezzo milione di bebé, la metà del 1964 e il livello più basso da inizio ‘700. In Liguria ci sono già quasi 50 pensionati ogni 100 persone in età da lavoro, di cui metà inattive, e questo è il futuro di tutt’Italia. Matteo Renzi ha promesso di non toccare le pensioni e da ieri sappiamo che la Costituzione è dalla sua parte. Ma neanche i giudici della Consulta, nella loro saggezza, sanno come conciliare la biologia di una nazione con la sua Carta fondamentale.