venerdì 1 maggio 2015

Repubblica 1.5.15
In metà delle famiglie c’è un senza lavoro
Con l’emergenza lavoro 6 su 10 ora sono precari
I disoccupati bocciano la ricetta del Jobs Act
Per metà del campione la riforma chiave di Renzi non avrà effetti. Cresce la quota dei senza-impiego
La ricorrenza del Primo Maggio segnata dall’inquietudine per il diritto all’occupazione negato. E dalla diffidenza verso i sindacati Il primo scudo anti-crisi resta la famiglia
di Ilvo Diamanti


OGGI , Primo Maggio, è la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Un rito di passaggio, con un mese d’anticipo, verso la Festa della “nostra” Repubblica. Fondata sul lavoro — come recita l’articolo 1 della Costituzione. Per questo è difficile vivere questo giorno di festa senza inquietudine. Secondo le stime dell’Istat, infatti, in Italia il tasso di disoccupazione è risalito oltre il 13%. In valori assoluti: 3 milioni e 300mila persone senza lavoro. Ma fra i giovani, la disoccupazione è del 43%. Coinvolge, cioè, quasi un giovane su due. Se il lavoro rende liberi, dunque, in Italia il senso di libertà (dal bisogno, ma non solo) appare molto relativo. Nonostante le riforme approvate dal Governo. Infatti, secondo il sondaggio realizzato nei giorni scorsi dall’Osservatorio Demos-Coop, sia il Jobs Act, sia la revisione dell’art. 18 sono guardati con diffidenza dai cittadini. Non tanto perché vengano ritenuti negativi, ma perché, semplicemente, sono considerati inutili e improduttivi. Metà della popolazione pensa, cioè, che questi provvedimenti non produrranno “nessun effetto”. E che, di conseguenza, non cambierà praticamente nulla. I più convinti, al proposito, appaiono proprio i “senza lavoro”. I disoccupati. Quelli che più degli altri sono interessati da iniziative che favoriscano la crescita e il dinamismo del mercato del lavoro.
Peraltro, gli italiani non sembrano avere ancora percepito la ripresa, annunciata da tempo. Comunque, non sembrano crederci davvero. Con qualche ragionevole ragione, se — come emerge dal sondaggio — in metà delle famiglie c’è qualcuno che, nell’ultimo anno, ha perso il lavoro oppure l’ha cercato inutilmente o, ancora, è stato messo in cassa integrazione. Poco più di quanto avevamo rilevato nell’indagine di due anni fa. Ma, appunto, poco-più, non poco- meno. Nello stesso periodo, inoltre, è cresciuta di 4 punti la quota di persone (intervistate da Demos-Coop) che affermano di non aver mai lavorato, nell’ultimo anno. Ora sono il 47%. Quasi metà del campione. Anche se occorre tener conto che nella popolazione intervistata sono compresi i pensionati e gli anziani, non considerati dalle statistiche ufficiali. Ma il distacco dal lavoro — come attività e come pratica “regolare” — risulta, comunque, largo. E crescente.
Così, non sorprende che quasi 6 italiani su 10 non mostrino alcuna fiducia nel futuro. E che questo atteggiamento divenga particolarmente esteso — e quasi “doloroso” — tra coloro che hanno familiari “senza lavoro”.
Il lavoro degli italiani, comunque, appare a tutti, anche agli occupati, “spezzato”. Una condizione tradotta e narrata con termini diversi. Il 18% degli intervistati definisce il proprio lavoro: “flessibile”. Il 12%: “temporaneo”. Il 27%: “precario”. Di conseguenza, solo il 41% si sente (al) “sicuro”. E, tra i più giovani (15-34 anni), questa componente è ancor più ristretta. Si riduce a meno di un terzo (32%). Non si tratta di una grande scoperta, mi rendo conto. Da tempo sappiamo bene di vivere in una società “insicura”. Dove il primo elemento di in-sicurezza è il “fondamento della nostra Repubblica”. Il lavoro. Lo sappiamo bene e lo sanno bene, soprattutto, i più giovani. Eppure non ne sembrano particolarmente contenti. Semmai: rassegnati. Come la maggioranza degli italiani.
Non per caso, si assiste a una rivalutazione delle professioni “stabili”, alle dipendenze di grandi imprese oppure nell’impiego pubblico. Insieme, oggi raccolgono la preferenza di metà degli italiani (con un incremento di 10 punti, rispetto al 2009). Mentre, nello stesso arco di tempo, hanno perduto appeal il lavoro autonomo e le professioni libere. A differenza di pochi anni fa, dunque, l’Italia, dunque, non sembra più un Paese dove tutti, per sé e i propri figli, ambiscono a un futuro da imprenditori, artigiani o da liberi professionisti. Cercano, piuttosto, un lavoro, toutcourt. Un lavoro che duri.
Parallelamente, sono cambiati, in modo profondo, i requisiti del lavoro “desiderato”. Poco più di dieci anni fa, prima della crisi, la maggioranza degli italiani cercava nel lavoro la “soddisfazione” e un buon clima di relazioni. Considerava, cioè, il lavoro come fonte di auto-realizzazione e di affermazione. Oggi, invece, contano soprattutto la “sicurezza”, la “continuità”. E poi il reddito, lo stipendio. Il lavoro è, anzitutto, necessità e stabilità.
D’altronde, l’ho già detto e non certo per primo, viviamo nell’età dell’incertezza. E nei tempi incerti, di fronte alle difficoltà economiche e del lavoro, di fronte ai problemi e all’inquietudine che annebbiano il futuro, le persone limitano e accorciano il loro orizzonte. Non solo nel tempo. Anche nel contesto — sociale e territoriale. Così, oggi gli italiani cercano ancore e appigli intorno a sé. E per sopportare i rischi del “lavoro spezzato”, per tutelare i lavoratori, non si affidano né allo Stato né agli enti locali. Neppure ai partiti — di destra, centro, sinistra: non fa differenza. Qualcuno, semmai, guarda ai sindacati. Ma sono pochi: meno di 2 su 10. Il primo guscio, il primo rifugio, per oltre un terzo degli italiani, resta — non occorre neppure dirlo — la famiglia.
Per questo oggi, Primo Maggio, si celebra il valore del Lavoro e dei Lavoratori. Ma, nel nostro Paese, anche della Famiglia. Per un legame stretto e, quasi, meccanico. Perché l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. E sulla Famiglia.