lunedì 18 maggio 2015

Repubblica 18.5.15
Memoria contro tecnologia se la sfida diventa business
Per gli scienziati smartphone e pc non sono più un nemico dell’arte di ricordare
di Silvia Bencivelli


AL VIA , cercate di imparare ottanta parole in lituano. Ci rivediamo tra una settimana: vince chi se ne ricorderà di più. Anzi: vince chi riuscirà a spiegare come avrà fatto a ricordarne così tante. È il senso di una sfida che ha messo insieme gli mnemonisti professionisti con gli scienziati che studiano il cervello: nel dettaglio la piattaforma online Memrise e l’University College di Londra. Il vincitore porta a casa diecimila dollari: Memrise e gli scienziati qualcosa di più prezioso. Cioè una sperimentazione delle tecniche mnemoniche più usate e delle loro combinazioni. Ma con dietro le possibilità, o comunque le inevitabili interazioni, con la tecnologia. L’idea è che la tecnologia prende e la tecnologia dà. Cioè che con tutto quello che oggi le affidiamo sotto forma di numeri di telefono, orari di treni, agenda, lemmi e glosse, date, nomi, eventi storici, stiamo diventando sempre più svegli nel suo impiego ma un po’ meno svegli nell’impiego del nostro cervello. Però forse possiamo mettere insieme le cose, e usare la tecnologia per allenarci a ricordare.
La gara di Memrise, per esempio, comincia con lo studio di ottanta parole in lituano: c’è chi lo ha fatto seguendo tecniche mnemoniche particolari e chi no. Una settimana dopo, il confronto è stato impietoso: alcune tecniche, sebbene confortate dalla teoria, non davano nessun vantaggio rispetto alla memoria al naturale. «È la dimostrazione di come sia difficile importare i principi scientifici nella vita reale quando si tratta di apprendimento», ha commentato David Shanks, psicologo a capo della divisione di Psicologia e scienze del linguaggio dell’University College di Londra. Un altro risultato (provvisorio perché la gara si chiude a fine mese) è che combinare più tecniche è meglio che affidarsi a una sola.
Per esempio conviene imparare dagli errori: difficile intuire il significato di una parola lituana dal suono, ma l’errore iniziale può essere un gancio per ricordarsela meglio. E poi conviene farlo avvicinandosi alla cosa da imparare come ci si avvicina al tavolo di un buffet: una cosina qua e una là, qualche pausa.
Da tutto questo, solo all’apparenza scontato, Memrise spera di capire come migliorare la propria app. E gli scienziati festeggiano, perché tanti volontari così, per un esperimento così, difficilmente li avrebbero avuti.
La storia ha almeno due morali: la prima è che le cose cambiano. Cioè: fino a poco fa un sodalizio tanto aperto tra gli scienziati e i venditori di giochini per “allenare memoria e intelligenza” sarebbe suonato singolare.
Nell’ottobre 2014 girava una lettera aperta dei neuroscienziati contro il cosiddetto “brain training”. Si metteva in guardia dai riferimenti ingannevoli alla ricerca scientifica. E la conclusione era che «c’è poca evidenza che coi giochini si migliorino le abilità cognitive o si diventi più abili ad affrontare la vita reale». Come dire: guardate che ottanta parole in lituano non significano la cittadinanza onoraria di Vilnius.
Anche allora c’era chi stava cominciando a lavorare con le app. Per questo si era deciso di prendere posizione disegnando una linea chiara tra quello che la scienza può fare o non può fare. Ma non tutti erano d’accordo: non lo era Michael Merzenich, dell’Università della California di San Francisco, che aveva dichiarato che era «come buttare via il bambino con l’acqua sporca». Da sottolineare il suo legame con la company Posit Science, che produce giochetti per il brain training.
La seconda morale è quella da cui siamo partiti. Con Wikipedia sempre in tasca, la possibilità di recuperare al volo l’anno della morte di Debussy o della pace di Vestfalia non diventa la possibilità di dimenticarlo? Qualche anno fa Betsy Sparrow, psicologa della Columbia University, mostrò come sia diffusa la tendenza a mandare a mente solo quello che non si è sicuri di trovare su Internet. Debussy e la Guerra dei Trent’anni su Google, quindi, ma il compleanno della zia a memoria. Mentre Ian Robertson del Trinity College di Dublino, con un campione di tremila irlandesi, aveva verificato come un terzo degli under 30 sia incapace di recitare il numero di telefono di casa e solo il 40% si ricordi del compleanno dei familiari stretti, contro l’87% dei loro genitori. Del resto, l’agendina dello smartphone è lì apposta.
Ma questa memoria transattiva (termine coniato dal maestro di Sparrow, Daniel Wegner) è una memoria di scorta non diversa da quella che un tempo affidavamo alla carta: «È diversa — ha spiegato Sparrow — solo perché l’informazione disponibile oggi è di più». E poi la memoria è sopravvalutata. «Cioè: ci sono cose che vanno tenute a mente, ma memorizzare non ha un grande valore intellettuale». Meglio capire. E nel caso delle cose in cui non c’è niente da capire, come un numero di telefono, liberi di scegliere se usare la memoria transattiva.
Infine, la tecnologia prende e la tecnologia dà non solo alla memoria ma anche all’attenzione. Secondo Gloria Mark dell’Università della California, nel 2004 chi lavorava al computer si distraeva in media ogni tre minuti, nel 2012 ogni minuto e quindici secondi, nel 2014 ogni 59 secondi e mezzo. Le soluzioni? Tapis roulant per attivare i muscoli, compilation di musica rilassante, chiudere la finestra di Facebook. Oppure, come ai vecchi tempi, un timer da cucina a forma di pomodoro a darci il ritmo, e a suggerirci quando è l’ora di mettere il cervello in stand-by.